Fa un gran bell’effetto sedersi in una platea bella e ampia come quella del Manzoni di Pistoia e assistere a uno spettacolo di marionette; non solo per contravvenire la serie di luoghi comuni che non v’è necessità di ribadire in questa sede. Ottima l’idea d’abbinare la presentazione del nuovo cartellone con una recita della Compagnia Carlo Colla & Figli, plurisecolare realtà del nostro teatro di animazione (espressione che preferiamo a teatro di figura) che propone Il pifferaio magico, antica leggenda germanica raccolta, tra gli altri, dai fratelli Grimm.
L’ampio boccascena è occupato da un’ulteriore cornice, in un avvincente gioco d’incastri: al calar delle luci, ecco dischiudersi le porte della città di Hamelin, Bassa Sassonia, per una fantasmagorica scena corale: i toni pastello d’una scenografia minuziosa riempiono gli occhi subito attratti da un’autentica parata di figure antropomorfe che sfilano cantando. Marionette d’ogni foggia, impressionanti per grandezza, fluidità gestuale, paradossale umanità. È un trionfo coreutico, appoggiato sui brani dalla vaga eco lirica di Danilo Lorenzini e Giuseppe Azzarelli (testi di Enzo Oddone).
Inizia la vicenda, articolata, pure troppo, col giovane sognatore inviso all’inclita schiera di notabili, unanimamente proni alle ragioni d’un produttivismo ante litteram e, dunque, sordi ai richiami del sogno e della poesia. Ci sono, ovviamente, il Pifferaio e i topi lesti a invadere la scena, ma la drammatizzazione è a rischio d’un controproducente caos: molti i personaggi, altrettante le voci, senza caratterizzazioni sufficienti a scongiurar la pesantezza che qualsiasi intreccio dovrebbe rifuggire, figuriamoci una fiaba.
Discorso diverso, ma ugualmente critico, per voci e musiche: all’ammirevole trionfo del materico (nei fondali cangianti, nel dosaggio dell’illuminazione, nelle strabilianti personificazioni marionettistiche) s’abbina una colonna sonora priva di sufficiente coerenza; non abbastanza “moderna” da infrangere il cliché fiabesco della parte visiva, ma neppure convincente in quel né carne né pesce tra suggestione operistica e sonorità quasi pop, impervia soluzione mezzana tra istanze d’ardua coniugazione. S’aggiunga una recitazione piuttosto telefonata, complice (così ci è parso) l’affidamento di questa alla registrazione, e il risultato è di generale anestesia.
Ne esce un Giano bifronte d’allestimento: bello per l’occhio, deludente all’orecchio, col sovrammercato dei vari problemi di leggibilità narrativa. Come dire: se marionette debbon essere, si evitino diluizioni o ammodernamenti grossolani. Una leggenda affascinante come Il pifferaio di Hamelin (titolo originale d’una favola assai inquietante, riferita a un’incerta sparizione collettiva consumatasi intorno al 1350 col lieto fine aggiunto successivamente) presenta tutte le caratteristiche per trarne un capolavoro: l’oscurità della vicenda (i bambini “rapiti” da un agente esterno, o forse un’epidemia − si ipotizza Corea di Huntington), le varianti diegetiche, la possibilità di lavorare davvero su una pluralità di registri che coniughino fruizione adulta e bambina. Per paradosso, questo Pifferaio pare poco efficace sia al nostro sguardo consumato sia a quello ben più fresco (ma non più ingenuo, anzi) della quinquenne (e mezzo: non ci perdonerebbe l’errore, se ci leggesse) assopita crollataci in braccio a fine intervallo. E novanta minuti, per tutto ciò, sembrerebbero davvero troppi. Ci si consola con le marionette, nell’applauso finale giustamente tributato ai dieci (!) operatori che la caduta del cielo offre a una platea comunque soddisfatta.