Cliché dei cliché: tutto il mondo è paese.
Nota a margine: il modo di dire è nato assai prima della cosiddetta globalizzazione, la quale in fondo non è che l’estroversione economica e sociale di una sostanziale somiglianza di istinti.
Succede così che una compagnia giapponese di recente formazione – i Mum & Gipsy, fondata dal giovane autore e regista Takajiro Fujita [nella foto in basso]– presenti al pubblico italiano uno spettacolo che è poco più di una prova aperta. Un po’ come un costruttore che venda un villino senza avervi prima sistemato porte e infissi. Chi frequenta il cosiddetto teatro di ricerca è più che avvezzo a questa prassi (o vizio?). Del resto, trarre indicazioni conclusive o assennate da una performance senza costumi di scena, senza finale e con pochi giorni di lavoro alle spalle, è altamente rischioso, oltre che ingiusto. Dirò allora che anche questa recensione è tutta da costruire, e attende una successiva visione per tagliare il nastro.
La scrittura, ci viene spiegato prima di entrare in sala, è il frutto, cioè la sintesi creativa, delle conversazioni tra il regista e i suoi attori, in parte italiani, scelti al termine di un workshop (per chi, come il sottoscritto, non ha fiducia nell’opera collettiva, negli sprechi metabolici del processo e nell’oscillazione stocastica, è un pessimo inizio).
Scena aperta, toni del legno, attori schierati sui lati: l’ambiente che riunisce e filtra i testi così elaborati è un albergo, in cui si trovano a convivere persone diverse, tra impiegati e pensionanti di lungo corso. I temi del viaggio, dello spostarsi e del rimanere isolati, della difficoltà di orientarsi nell’età matura, che la drammaturgia sembra avviare inizialmente, si frammentano subito in sketch scardinati da una narrazione principale: innamoramenti e attriti giovanili, dolorose memorie personali, fantasie, preparazioni culinarie.
Non c’è un attimo di pausa, né un attimo di silenzio. Ritmo, ripetizioni, refrain, ruvide transizioni, lessico colloquiale, musica ad alto volume: gli attori parlano velocemente e altrettanto velocemente si muovono, saltellano, corrono sul posto, mimano gesti, spostano i pochi arredi come fossero su un campo da gioco. Una playlist eterogenea (elettronica, industriale, jazz, drum&bass, ecc.) segue costantemente l’azione, stordente a tratti, sovrapponendosi alle parole, oppure armonizzandosi. Su un ledwall passano immagini e brevi clip legate, per associazione più o meno diretta, agli spezzoni drammaturgici. Un altro schermo serve alla proiezione dei sottotitoli, necessari a comprendere le battute pronunciate in giapponese.
Non è chiaro se il registro debba virare verso il comico (certi passaggi lasciano pensare così), o tenersi a una cifra surreale.
Altro non mi sembra di poter dire.
Il cast dello spettacolo, foto di Yuki Ichihashi