Fortunatamente ho smesso di leggere le cartelle stampa prima di vedere uno spettacolo. Se avessi letto quella di Made in China (trovandovi, per esempio: «Una cartolina dall’Olanda: saluti da Parigi! Sotto: una foto di Hong Kong. Ecco il cortocircuito che prende vita e nella mente trasforma per qualche secondo un ombrellino cinese in un girasole in pieno stile “Van Gogh”. Due universi molto distanti, eppure vicino Hong Kong esistono fabbriche a cielo aperto interamente dedicate alla riproduzione di opere d’arte destinate al merchandising dei Musei»), mi sarei certamente fatto un’idea sbagliata, immaginando una riflessione sul sistema dell’arte, sulla mercificazione e contraffazione, sul confronto tra Oriente e Occidente. E non conosco niente di peggio di un’aspettativa mortificata.
Fortunatamente ciò che mi interessa del teatro è la parola, il suo senso, come risuona nella bocca di chi la pronuncia, e soprattutto se posso crederci. Crederci, sentirmi vicino a chi parla. Se non fosse così, dopo i primi minuti di Made in China, i soliti vizietti (o viziacci?) del “teatro di ricerca” mi avrebbero stizzito (pause, lunghe attese; e per quanto tempo ancora si continueranno a usare quelle sonorità ruvide, quel basso continuo che vuol comunicare inquietudine?).
Fortunatamente. Perché Made in China è uno spettacolo che ha moltissimo da dire. Simone Perinelli è un attore che ha moltissimo da dire. Ha il coraggio di buttar via una battuta, foss’anche la più importante di un monologo, mangiandosi le parole o inciampando ad arte. Sa come appoggiare le frasi a un gesto ripetuto, come distrarle, come violentarle. Non teme di apparire caricaturale, vernacolare, non ha l’ossessione della dizione (della lingua perfetta che nessuno parla), tiene la barra dritta fino alla fine.
E il testo, il testo!
Anni fa, leggendo le lettere scritte da Van Gogh – se possibile più oneste, più luminose e più eretiche di quanto non sia la sua pittura – mi stupii che nessuno le avesse mai usate come materiale drammaturgico (almeno a mia memoria). Perinelli, con la misurata e preziosa presenza di Claudia Marsicano, ne trattiene la purezza, vi si ispira, scrivendo brani separati (o quadri) che vanno a comporre un taccuino disgregato di una vita disgregata, quella di Vincent, il pittore dei corvi neri che incombono su un campo di grano, il pittore che si mozza un orecchio e lo consegna, incartato, a una prostituta.
Sono frammenti nitidi, pieni di idee, di ritmo, senza stupidaggini retoriche: le deviazioni spudorate e perfino dozzinali (si va, per esempio, da una riflessione profonda sul significato dell’autoritratto all’autoritratto dei nostri tempi: il selfie) si spiegano con il titolo dello spettacolo: se oggi in Cina si producono Van Gogh in serie, batterie di Van Gogh da arredamento (ma attenzione al feng shui!), una giovane compagnia romana può permettersi di fare della vita di Van Gogh una meravigliosa cineseria, una poetica raccolta di cianfrusaglie, se questo serve a combattere il cancro dell’Aneddoto e della Narrazione esemplare.
E allora spero davvero che dopo questo debutto Made in China lasci per strada i suoi vizi residui e raggiunga la sua propria perfezione.