È tra il 1957 e il 1969 che Jorge Luis Borges, con l’ausilio di Margarita Guerrero, pubblica a più riprese El libro de los seres imaginarios, un saggio al cui interno è possibile trovare una cospicua selezione di figure fantastiche. Noi, che siamo arlecchini, di figure (e figuracce) reali, ma dalla grande fantasia, ne vediamo molte. È con grande piacere, quindi, che vogliamo testimoniare le fiere belve incontrate nel nostro girovagare per teatri, realizzando così un nostro esclusivo bestiario. Dopo la Gazzella segue un’altra infida creatura.
Epoca di commentatori, la nostra. Dal calcio alla politica, dai cantieri stradali alla televisione, non c’è fatto che resti non commentato. E quando in una sala teatrale cala il buio c’è sempre qualcuno che si sente prescelto da un essere soprannaturale e si incarica dell’onere della chiosa, della postilla, della glossa, dell’inciso, per non lasciare la performance sprovvista del giusto apparato di annotazioni.
«La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar». Come per la menzogna di rossiniana memoria, si inizia con un sussurro quasi impercettibile. Pian piano la voce si alza, e l’osservazione isolata diventa ronzìo incessante che le teste ed i cervelli fa stordire.
Quando sembra che abbia raggiunto l’apice, aumenta ancora, il Commentatore si fa più sicuro di sé e non disdegna di suscitare l’ilarità dei vicini, con il suo talento istrionico. A un certo punto, il rapporto tra contenuto in scena e notazione in sala diventa sproporzionato, quasi a livelli di un canto della Divina Commedia, in cui a una terzina corrisponde almeno mezza pagina di note. Altro che Gianfranco Contini, Giorgio Bàrberi Squarotti o Pier Vincenzo Mengaldo: alle spalle abbiamo l’astro nascente del commento a pié platea, sicuramente anch’esso dotato di nome trino, come i suoi più illustri colleghi.
L’interpretazione volante è la prima causa di morte nelle sale teatrali (e cinematografiche). Il commento estemporaneo appiattisce su un’unica lettura tutti i significati e le emozioni che un lavoro può suscitare. È una piaga di cui il cinema soffre ancor di più del teatro: chissà come, la presenza di gente viva che fa cose è un deterrente maggiore rispetto a uno schermo colpito da una proiezione. Però la tendenza è crescente anche nelle sale frequentate da Arlecchino e, di solito, in quelle tipologie di performance in cui una percezione svincolata dall’esigenza di comprendere è fondamentale per godere di ciò che si vede. Ma l’operazione è semplice è lineare: Spettatore + Smarrimento = Commentatore.
Solitamente, si danno due categorie di commento. Il primo è quello della sottospecie Esegeta, l’espertone che ha portato amici o parenti a vedere della fuffa del così detto teatrocontemporaneo e vuole fare il superfigo spiegando il profondo messaggio anticapitalistico di un performer che mangia una bistecca mentre è legato per i piedi al soffitto. Dall’altra parte c’è il Polemico, quello che, al contrario, non capisce e ne è infastidito. Questa famiglia di Commentatori si riconosce dalla precoce chiosa «Ma che, davero?», inizialmente rivolto più a sé stesso che ai fortunati circostanti, fino a sfociare nella richiesta al vicino «Ma anche te non ce stai a capi’ un cazzo?». Una volta individuata la spalla si dà il via a un’interminabile serie di osservazioni ciniche e spiritose per arrivare alla fine sani e salvi. Purché nessuno, lì vicino e prima degli applausi, sfoderi un manganello.
Ma noi, da arlecchini, recensiamotutto, siamo davvero curiosi e vi facciamo un appello: se davvero pensate che quello che avete da dirvi valga di più di quel che c’è in scena, noi vi crediamo. Forniteci una locandina coi vostri nomi, e vi recensiremo su queste colonne.
[“Che ha detto? Il commentatore??” “No, no: ha detto “il Commendatore!”]