Attore e uomo. Uomo e attore. La vita come teatro o, ancor meglio, il teatro come vita: gioco riflessivo assai ricorrente sul palco e nei discorsi intorno al medesimo. Più che lecito, s’intenda, ché il rimando continuo ha storia e lignaggio, oltre che ampie porzioni di senso. Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri tornano in pista, ossia in scena, delegando una scalcinata compagnia di marginali figure ammiccanti alla ribalta (identici i ruoli: l’organizzatrice volitiva, l’atletico amoroso, la bella discinta, il rodato affabulatore) e che, invece, aleggiano attorno al quadrato, come da titolo, il ring della nobil arte decaduta (non ce ne voglia il coriaceo Floyd Mayweather, che mai ci leggerà, se diciamo che vale meno di un’unghia dei Sonny Liston che furono). E, come rammentato negli appositi consigliazzi, il rimando tra scena e quadrato ha pure un giusto avallo teorico, ricordando il bel Teatro e boxe. L’atleta del cuore nella scena del Novecento di Franco Ruffini (Bologna, Il Mulino, 1994)
Nella semioscurità lattiginosa della sala Ryszard Cieslak, salta subito all’occhio la matericità degli arredi: cordami dall’alto, americane (le aste orizzontali su cui poggiano i riflettori) a mezz’aria, vecchie seggiole in legno. Esalazioni d’esausta miseria, da fabbrica dismessa, come d’un luogo un tempo dignitoso, forse addirittura vivo, ora seppellito da polvere e dimenticanza. E hanno ragione, qui, i già autori di Tandem, ché teatro e boxe, per vocazione decadente e fasti trascorsi, han più d’un che da spartire: il brinoso dominio d’un tenue azzurro-verde ricorda certi tratti di Million Dollar Baby, pellicola che ben più del patinato fintoplebeo Rocky o del barbarico Toro scatenato, ci sembra ispirar la scena di Leonardo Bonechi.
Gionata Bernardeschi, pugile in vita (dall’Accademia Pugilistica Mazzinghi: la provincia pisana ha popolaresche e illustri consuetudini coi guantoni, come rammentato anche da Cazzotti, monologo di Marco Azzurrini, un paio d’anni fa), è il cenerentolo pinocchiesco d’una fiaba su questo mondo liso, consunto come una stoffa sfibrata. Intuiscono le vaghe potenzialità del baldo fanciullo i componenti della compagnia (nell’idioma d’oggi si direbbe entourage), tanto somigliante ai contemporanei ensemble scenici perennemente tribolati nell’abbinar pranzo e cena. Novelli gatti e volpi, ammaliano il garzone scopa in mano che scavalca le corde e debutta sul ring.
Filippo Farina è un mellifluo imbonitore settentrionalotto, Quinzio Quiescienti il coach devastato dai rimpianti, Stefania Ventura la sventola che sfila tra una ripresa e l’altra, Veronica Lucchesi la tenace ragazza sgabello, Maria Grazia Pompei la concretissima pianificatrice.
Scherma recitativa vivace a momenti, e preziosa nella concertazione fisica, quando, con pochi gesti, gli attori creano spazi giocando coi materiali (le funi diventano ring, i corpi come angoli), pur nella prevedibile linearità della fabula: a illusione segue puntualissima delusione. C’est la vie, caro boxeur, e no, non c’è speranza né redenzione né niente, in fondo, cui aspirare.
Il pugilato è(ra) una farsa, un sogno cui cedere cuore e passione, dalla seduta d’una palestra periferica o, direttamente, la poltrona installata dinanzi al televisore. Lo spettacolo popolare che, da sempre, ha da infiammare i cuori, come il catch di barthesiana memoria, ma il fuoco dura solo quanto lo si vuol far durare: alcuni vi dedicano vita e pensieri, altri se ne sbattono e nessuno, per quel che conta, ha davvero mai torto. Il pregio di questa Boxe attorno al quadrato è l’affresco delicato, che lascia intendere il riferirsi al teatro, ma senza la presunzione snobbettina di certa (triste-trita) ricerca sempre concentrata sul proprio ombelico.
Applausi timidi (per il finale forse mal colto da taluni o per l’esigua presenza di spettatori), ma sinceri e meritati.