Eccoci dunque al Teatro Manzoni di Pistoia, che in questa ottobrina domenica si fa gremito. Non possiamo fare a meno di notare – è forse malizia? – che buona parte del pubblico sfoggia un volto affaticato dal tempo, incoronato da canuti crini a stento nascosti dall’ultima tinta.
Sipario abbassato, al limitare del palco vi sono, da un lato, una vecchia poltrona, dall’altro, un giradischi: si intuisce forse l’opposizione di due realtà che si delineeranno meglio, solo per svelarci la loro reciproca incomprensione.
Queste le premesse per quanto diremo su Il prezzo di Arthur Miller, nella regia di Massimo Popolizio, affiancato alla direzione artistica da Umberto Orsini.
Aperto il sipario, si scopre una scenografia affascinante: i mobili, accatastati in equilibrio precario da un lato, s’innalzano fin dove non possiamo più scorgerli; occupano gran parte dello spazio, non sono semplici oggetti e, dopo qualche minuto, intuiamo che incarnano un’assenza che si fa opprimente.
Victor (lo stesso Popolizio) è già in scena, aziona il giradischi e, ancheggiando radioso, si muove tra i mobili di antiquariato. Sul lato opposto, in alto, si apre un’entrata, da cui appaiono gli altri personaggi, scendendo da una scala fino al palco. La discesa dei gradini, sul cui limite si è completi nella propria sicurezza, pare rappresentare l’inevitabile necessità di un confronto con l’altro, che diviene una messa in discussione di sé: nessuno, risalendole, è più lo stesso.
Dietro le forme rigide del teatro di tradizione, fremono presenze estremamente vive, che immediatamente suscitano nello spettatore pietà o disprezzo, giudizi che lentamente vengono smantellati. Se infatti, in un primo momento, la “verità” si annuncia sulla scena come assoluta, con personaggi bidimensionali e relativamente semplici, la narrazione affievolisce questa certezza che, infine, si frammenta, dando corpo a individui tragicamente soli.
Solitudine esistenziale che impedisce qualsiasi forma di contatto, benché tra gli attori vi siano sempre legami, e ogni personaggio abbia un significato soltanto nel dialogo con l’altro.
Victor è insicuro se accostato alla volubile moglie Esther (Alvia Reale), fragile di fianco al carismatico fratello Walter (Elia Schilton), privo, in un primo momento, di una personalità individuale, addirittura succube della poltrona, ultima vestigia di un padre (ecco l’assenza sopra citata) che rappresenta uno spettro, ora benigno ora distruttivo, capace di influenzare e logorare il rapporto tra i fratelli.
Ritrattiamo adesso tutto ciò che abbiamo fin’ora scritto: Solomon, quarto personaggio, interpretato da Umberto Orsini, non rispetta alcuno dei cliché sopra descritti e mette in crisi, con la sua presenza totalmente casuale, una “famiglia” la cui forma è già incrinata. Lo stimatore, ancor prima di determinarsi attraverso la parola, si distacca per una gestualità più ampia e vivace, una recitazione più leggera, ed è l’unico personaggio su cui lo spettatore non riesce a esprimere alcun giudizio, stabile nella sua indefinibilità.
Il prezzo che egli deve attribuire alla mobilia costituisce l’innesco della vicenda: è il denaro a svelare l’incompatibilità di fratelli il cui legame di sangue ha poco significato, la vacuità di una vita che, nella ricerca della ricchezza, perde ogni affetto.
Eppure, piccole incongruenze ci fanno pensare che il testo di Miller (ben tradotto da Masolino D’Amico) non rivolga semplicemente una facile accusa ad un sistema che individua nel denaro l’unica fonte di felicità, ma si interessi maggiormente a una psicologia sempre indefinita, lasciandoci sospesi nella piacevolissima consapevolezza che, anche in teatro, l’uomo è, almeno in parte, imprevedibile.