Recensione/sguardazzo su “Porcile”, di Pier Paolo Pasolini, regia di Valerio Binasco, visto a Prato (Teatro Metastasio).
Il profondo disagio delle persone nel manifestare i propri sentimenti, nell’entrare in intimità con gli altri. L’instabilità, la fragilità e l’incomunicabilità nelle relazioni umane, soprattutto quelle familiari, amorose. Tematiche forti del dramma borghese dei giorni nostri. Valerio Binasco affronta simile retroterra, quello delle intricate relazioni interpersonali fra i personaggi del Porcile di Pasolini, per sollecitare i nervi scoperti della contemporaneità; più da dramma psicologico che estetizzante o politico. L’intento è chiaro: gettare nuova luce su dinamiche sociali quasi cannibalistiche, espresse da Pasolini con la metafora del letamaio, che dal secondo dopoguerra a oggi, non sono mai cambiate, anzi, sono ancor più fagocitanti e oppressive.
Forse meno nota di quella cinematografica del 1969, la versione teatrale di Porcile (1965), riletta oggi da Binasco in tutti i suoi aspetti tipici del dramma borghese alla Tennessee Williams, è la storia familiare dei Klotz. Le vicende private di una ricca coppia d’industriali tedeschi sono raccontate cinicamente dal poeta-drammaturgo attraverso il progressivo fallimento di una confusionale, contradittoria e conflittuale genitorialità con il venticinquenne Julian, figlio stralunato, che “non ubbidisce, né disubbidisce”, ma che si condanna sommariamente ad un auto-martirio per un amore inconfessabile (e mai confessato) sfociato in pulsioni sessuali svolte all’interno di un porcile.
Il regista compie un’operazione drammaturgica coerente con le sue intenzioni, eliminando dal testo la scena nella quale compare il filosofo Spinoza, che offre allo spettatore la chiave di lettura pasoliniana della vicenda. Si elude tutto ciò che, nel testo, vira verso lo straniamento dello spettatore, voluto da Pasolini per tutte le implicazioni politiche e filosofiche insite nella piéce, più forti dell’istanza narrativa di raccontare un dramma familiare. La paura d’amare del giovane Julian, soffocato dall’affetto maldestro dei genitori e incapace di mostrarsi agli altri per la certezza d’essere rifiutato per ciò che egli è realmente, non solo a causa delle proprie imbarazzanti pulsioni. Il suo disagio è simile a quello del Sebastian di Williams in Improvvisamente l’estate scorsa, anch’egli rimasto ucciso in circostanze simili: giovane, chiuso in sé stesso, circondato da una ricca e ipocrita famiglia borghese, schiavo del senso di colpa per il proprio orientamento sessuale.
Il dichiarato scopo del regista è di difficile esecuzione: infondere ritmo a un testo che, di per sé, è più sfilacciato e frammentario di come dovrebbe essere, al fine di immergere lo spettatore nel profondo della storia familiare dei Klotz. Per la maggioranza del tempo, siamo in un altro giardino, raffigurato con un’imponente olografia da Lorenzo Banci, che rende la scena al contempo sia spoglia sia adorna. Un ambiente rarefatto, troppo imponente, rende più difficile la creazione di un’atmosfera d’intimità fra attori e pubblico. Basti ricordare la scenografia cubica disegnata da Mario Ceroli per il primo allestimento dell’Orgia pasoliniana (1968), in uno spazio quasi claustrofobico che consentiva maggior vicinanza, anche emotiva, fra attori e pubblico.
Tuttavia, Binasco, buon direttore d’attori, riesce a inquadrare al meglio ogni personaggio sfruttando la sciente e fluida recitazione degli attori di compagnia del teatro stabile toscano: convincenti, ciascuno esce dagli schemi di una “naturale” predisposizione a un antico sistema dei ruoli, che in altri allestimenti pratesi era consuetudine individuare. Salvo un’inevitabile digressione centrale, il ritmo dello spettacolo trasporta amaramente lo spettatore verso ciò che ancora oggi rappresenta: il porcile a cannibalizzare la nostra società.