L’atmosfera è, come norma vuole, da grandi occasioni: gremita la platea, palchetti e balconate punteggiati di teste sporgenti, muliebri e incaute messe in piega spuntano dai soprabiti buoni, freschi di lavanderia. L’opera in provincia è anche così: roba da trombe lucidate di contiana memoria, così remoto è il casual, forse pure più snob, della metropoli (ancorché piccola, la fiorentina è, in senso culturale-operistico, città “del mondo”, non da ieri). Puccini, poi, per Lucca rappresenta un’irresistibile sicurezza, come se il centro da cui si diede alla fuga, complice lo scandalo d’una moglie (la “povera” Elvira) sottratta all’amico droghiere Gemignani, non riesca (e le annose vicende ereditarie lo dimostrano) a ricomporre lo strappo occorso oltre centoventi anni or sono. Madama Butterfly è per giunta titolo tra i più usati del lucchese, terzo successo in fila che segue, nel 1904, Bohème (1896) e Tosca (1900), apicali episodi in cui il compositore dimostra una perfetta sintonia tra il proprio estro e le richieste d’un pubblico che l’ha eletto incontrastato protagonista del melodramma.
C’è da essere felici a risentire all’opera l’Orchestra Regionale Toscana, condotta con vivace vigore dalla mano di Valerio Galli: la sua direzione è mossa, l’Ouverture staccata su un tempo incalzante, secondo una vulgata che ormai va per la maggiore, ed è godibile soprattutto nella resa della cadenzata ritmicità che caratterizza gran parte del primo atto.
Si schiude il sipario e il Giappone di Cio-Cio-San è raffigurato da un’imponente costruzione lignea di pannelli scorrevoli, elementi comuni a tutti e tre gli atti: la storia dell’allestimento (risalente al 2004 e che, nel tempo, ha visto alternarsi più artisti) è composita. In questi casi, chi sopraggiunge tende, non senza ragioni, a semplificare, sottraendo elementi, piuttosto che lavorar d’accumulo. E bene, all’uopo, fa il dosaggio delle luci, rispetto al colpo d’occhio che ricorda certi (comodi) armadi Ikea.
La regia, di Sandro Pasqualetto, ci pare imperniata su una livida astrattezza, allusiva ai grandi temi dell’incontro-scontro tra culture: il Sol levante, tradizionale e misterioso, da un lato, le stelle e strisce dall’altro, attrito dolente da risultar fatale per la povera protagonista. Poco movimento, se si escludono le sequenze corali del primo atto, infuse di caldi cromatismi sia per i costumi sia per le luci chiare, in una progressiva cristallizzazione dinamica che ci pare consona pure allo spartito, via via più focalizzato sulla tragedia interiore della fanciulla nipponica. L’ultimo atto è, infatti, rappreso, quasi ieratico, dominato da tonalità lunari a creare un efficace conflitto con l’intensità del dolore di una donna votata al suicidio compiendo jigai (modalità femminile, erroneamente confusa con il seppuku, l’harakiri dei guerrieri).
Manchiamo, e ci spiace, la replica con Maria Luigia Borsi, ma Grazia Lee è una Cio-Cio-San assai intensa, precisa e sorprendente per la prestazione in evidente crescendo, cosa che il pubblico dimostra d’apprezzare. Il plauso maggiore, a nostro avviso e non solo, va però a Giuseppe Altomare, uno Sharpless robusto e potente com’è raro sentirne, ma pure a proprio agio quando si tratta d’interpretare le sottili piegature d’un personaggio tra i più interessanti dell’opera. Il discorso, purtroppo, non vale per il Pinkerton di David Sotgiu, troppo debole d’emissione, a comprometterne una prova anche ordinata, ma non del tutto soddisfacente; gli fa eco, in certe fragilità, il cappelluto Yamadori di Antonio Pannunzio. Non deludono, invece, Monnjin Kim (Suzuki), Alessandra Meozzi (Kate Pinkerton) e il buon Goro di Tiziano Barontini.
Questa Butterfly è, in sé, spettacolo ben dignitoso, pure godibile, cui potremmo solo imputare la sola pecca d’una palpabile routinarietà, l’assenza d’un “guizzo” (eccezion fatta per la conduzione, a nostro avviso la nota migliore dell’allestimento), qualcosa che tenti, specie a livello interpretativo, d’incidersi nella memoria dello spettatore, e rifiutare un’accettazione supina della dimensione provinciale. Magari ci sbagliamo, ma, se così fosse, sarebbe per troppo amore.