Può sembrare un paradosso, ma, talvolta, il male del teatro non è la mancanza di pubblico, bensì la sua presenza. Non v’è da opporre le pur comprensibili obiezioni circa la necessaria abilità d’incanto da parte di chi s’industria in scena, ma di mera (il)logica umana. Perché recarsi a teatro (uscire di casa, prendere la macchina, parcheggiare, pagare un biglietto) portandovi la famiglia, per poi passar il tempo a cincischiare con lo smartphone? Nulla può l’arte contro la deficienza (almeno d’educazione), ce e ve ne rendiamo conto. Curioso, però, che il nostro personalissimo anatema contro gli adulti presenti a vedere Pinocchio di Zaches Teatro (seconda replica del pomeriggio, complimenti a loro) ci pare in singolare risonanza col senso dell’allestimento.
Zaches è un gruppo che abbiamo intercettato e scoperto nelle ultime settimane, a Cascina, piazza che per cultura non invidierebbe nulla a nessuno. Pubblico avvisato all’inizio: l’allestimento può far paura, e si raccomanda, specie ai bambini, di non limitarsi al trauma dello shock, ma di provare a conviverci; comprendiamo il discorso, in un’epoca che pare nemica del perturbante da pretender l’impossibile elusione d’ogni ruvidezza. Discorso da barbogi: lo chiudiamo qui.
Le storie collodiane vengono tradotte in un raffinatissimo dispositivo audiovisivo: nessuna proiezione video, s’intenda, ma una scena spoglia, di desolato cromatismo sabbioso contrapposto al porpora del sipario sul fondale, esplicita evocazione teatrica. La concreta partitura sonora è di gran pregio: del resto, la cura minuta d’acustica e musiche è fra i nuclei principali della ricerca zachesiana. Giulia Viana è un burattino pigolante e mercuriale, chiarovestito, lieve nelle movenze: il suo incedere ha un che di mortifero, inquietante. Il protagonista è circondato da caratteri buffi e angosciosi, con volti coperti quasi per intero da maschere di ottima fattura: su tutti, Gatto e Volpe, truffatori che strappano sorrisi all’infante platea. La vicenda è scientemente disumanizzata: non vi figurano che pupazzi, compresa l’ambigua (già nell’originale) Fata-bambina.
Il taglio di Luana Gramegna s’avviluppa alla massa oscura cui Pinocchio non può che alludere: simbologie lugubri, in cui macabro la fa da padrone, il tutto consacrato a un umorismo spiccato, specie per la recitazione grottesca, a tratti indovinatamente circense, dei bravi Gianluca Gabriele ed Enrica Zampetti, abilissimi nello slittar di parte in parte, componendo via via l’allucinato coro dei compagni pinocchieschi.
Il lavoro ci sembra patire di qualche pausa eccessiva, in particolar modo con l’approssimarsi del finale, forse troppo brusco: sottoscriviamo l’idea che il vero Pinocchio sia il burattino, e non il perfetto impiegato a cui lo condanna in futuro il suo improvvido autore, ma una gestione più fluida del tutto avrebbe potuto giovare.
Quella misura che, per esempio, abbiamo trovato felicissima in Il Minotauro, allestimento della stessa compagnia presentato qualche giorno avanti in una sorta di anteprima (sulla necessità di ben distinguere tra queste e prove aperte ci siamo già espressi, e ci ritorneremo). Lavoro più coreutico, con Gabriele smagliante nella parte del povero Teseo (non che il figlio del re ateniese Egeo faccia una gran figura nella storia) e una materica costruzione per suoni e immagini che ci ha ricordato, tra le mille differenze, certi esiti del Teatro Del Carretto. Spettacolo “compiuto”, a nostro avviso, nonostante le cautele di Gramegna e compagni, confidiamo di rivederlo, e non solo perché (lo dichiariamo per trasparenza) l’arlecchina Anna Solinas è all’uopo balzata sull’altro lato della scena per interpretarvi Arianna.
Torneremo a vedere Zaches, quindi, sperando in un pubblico (specie gli adulti) ben migliore.