Chi scrive è al momento imbarazzatissimo, perché lo spettacolo di cui dovrebbe tentare di parlare ha reso pressoché inutile qualsiasi ulteriore considerazione, e sia chiaro: questo non è un mero elogio, semplicemente la recensione è già scritta, ma su questo punto torneremo.
Il Teatro Nieri di Ponte a Moriano è gremito, pronto ad assistere a Trattato di economia, di (e con) Roberto Castello e Andrea Cosentino.
La riflessione nasce dal confronto di due oggetti, un fallo di gomma e una paperella da bagno: stesso materiale, stessi costi di produzione, prezzo l’uno quattro volte maggiore dell’altro. I due artisti, in camicia e giacca, cercano di capire e spiegare la curiosa discrepanza basandosi sulle leggi dell’economia, parlando come un unico essere dall’implacabile logorrea.
L’impronta è certamente moralista, di quel moralismo che di tanto in tanto nasce in ciascuno di noi, e che ci sentiamo di condividere, considerando nel suo complesso i controsensi di un sistema capitalistico.
L’aspetto interessante è, tuttavia, la piena consapevolezza dell’appartenenza a quel sistema: anche uno spettacolo è un prodotto che deve essere venduto, e pertanto l’eventuale critica che esso muove al sistema economico non può che essere priva di senso.
La bellezza, se così vogliamo dire, di quest’opera risiede più nella forma che non nel (dichiaratamente insensato/dissestato) contenuto: monologo, dialogo, danza, pura azione scenica, vari linguaggi teatrali si fondono per annullarsi reciprocamente, grazie a un’ironia assolutamente disincantata.
Meta-teatro perché consapevole di sé e disinteressato a mascherarsi: i due interpreti si presentano con i propri nomi e cognomi anagrafici (“Cosentino con le pallette in testa che dice cose”), prendendo in giro sé stessi e il pubblico in continui scarti di registro che regalano allo spettacolo un ritmo serrato ma mai confusionario.
Il teatro si rivolge a sé stesso dichiarando il suo, forse, più intrinseco problema: come parlare di qualcosa senza farlo esplicitamente, trovando parole che lo mascherino eppure focalizzino l’attenzione dello spettatore sul tema centrale? La domanda viene lanciata e abbandonata come irrisolta: nello spettacolo, semplicemente, la retorica è svelata e il ragionamento si mostra come paradosso insolubile.
La “critica” (si tratta piuttosto di bonaria ironia) dell’economia e del teatro trova una propria sintesi nel momento in cui Cosentino, seduto alla scrivania, espressione ammiccante da venditore esperto, tesse le lodi di una pietra, e Castello, danzando nello spazio circostante, liberatosi man mano dell’elegante abbigliamento, ci mostra didascalico il modo in cui altri grandi artisti (Jan Fabre, Luca Ronconi, Pina Bausch…) avrebbero potuto interpretare il tema centrale dello spettacolo: quando lo stile si fonde e confonde nel marchio, nel brand.
Il finale è certamente spiazzante: Attilio Scarpellini, critico “militante” e certo voce autorevole almeno per coloro (ormai pochi) che s’interessino a qualche titolo di analisi sceniche, appare in forma di luce proiettata, e compie, dichiarando l’esatta cifra ricevuta come compenso, la video-recensione dello spettacolo (da lui non visto): recensione definitiva che rende privo di significato lo spettacolo e assolutamente prive di valore le presenti parole.