Dopo sette anni di assenza, torna a Firenze il Rigoletto di Giuseppe Verdi: un’edizione eccellente, sia sulla carta (della locandina), che sul legno (del palcoscenico). A garanzia di qualità, la mano sicura ed esperta di Zubin Mehta, che guida l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino: amatissimo nella città gigliata, a cui è legato dal 1986, il Maestro indiano è stato appena nominato direttore principale emerito a vita. Titolo vago e altisonante, che riflette tutto l’affetto e la gratitudine della città (dimostrati, già prima dell’inizio della recita, anche dal pubblico in sala).
Il nome che spicca nel cast è quello del baritono Ambrogio Maestri nei panni del protagonista: classe 1970, è uno dei più affermati interpreti verdiani, primeggiando proprio in Rigoletto e Falstaff. La sua massiccia presenza scenica si riflette in una voce corposa e potente: pur soffrendo (lo tradisce qualche colpo di tosse prima di una brutta stecca nel primo atto) regala una performance esaltante e all’altezza delle aspettative.
La vera sorpresa della serata, punta di diamante di un cast eccezionale, è il soprano greco Christina Poulitsi: una Gilda bionda e slanciata, si esibisce senza paura in impervi virtuosisimi, facendo sfoggio di vocalizzi chiarissimi e precisi (non a caso è diventata famosa come Regina della notte nel mozartiano Zauberflöte). La voce del Conte, lo spagnolo Arturo Chacòn-Cruz, ha una grande facilità nel lanciare note acute sicure e impetuose, specialmente nel terzo atto. È anche belloccio (almeno da lontano) e ha una discreta presenza scenica: due caratteri inconsueti per un tenore. Giorgio Giuseppini, un basso amatissimo dalla critica, ma – misteriosamente – poco emerso, è un memorabile Sparafucile: la profondità delle note più basse è straordinaria, ed evita l’effetto sacerdotale con un tratto di dignità forse poco adatto a un sicario.
«…nel marzo avremo un lavoro – alla Fenice, m’han detto –
nuovissimo: il Rigoletto; si parla d’un capolavoro».
(G. Gozzano, L’amica di nonna Speranza, 1907-1911)
Han ragione gli zii molto dabbene – facile, Gozzano ha anticipato la poesia nel 1850 – nella previsione sul lavoro nuovissimo: Rigoletto è un capolavoro. La maledizione scagliata sul buffone da Monterone dà il via al meccanismo di una drammaturgia perfetta, tratta da un dramma di Victor Hugo (Le roi s’amuse, che nel 1832 fu un fiasco). Nel libretto di Francesco Maria Piave la vicenda è spostata alla corte del Duca di Mantova: l’anacronismo era un escamotage per aggirare la censura, che (forse) non avrebbe accettato una rappresentazione del potere tanto libertina. Ai tempi di Verdi, più probabilmente, le storie erano traslate nel Seicento perché il pubblico voleva vedere i bei costumi (fu sicuramente così, per esempio, per La traviata).
Henning Brockhaus firma un allestimento vagamente dark, in cui Rigoletto non è gobbo né vittima. Le scene di Ezio Toffolutti sono monocromaticamente rosse, color del sangue e delle passioni: in un ambiente non marcato temporalmente, si muovono personaggi da circo (tra cui un clown nano a cui spesso è affidata la liason de scénes) in costumi succinti e atteggiamenti orgiastici.
Sarebbe un mondo leggermente migliore se registi e scenografi capissero che l’opera lirica ha delle necessità particolari. Un esempio a caso: se Sparafucile sta chiudendo la sua aria con una nota molto bassa e lunga, probabilmente non è il momento migliore per farlo uscire di scena rotolando. O ancora: forse gioverebbe all’acustica (nonché alla visuale di almeno metà sala) se Gilda, Rigoletto, Giovanna e il Duca non si alternassero a cantare, per metà del primo atto, in una scatola a mezz’aria che rappresenta la casa de buffone. Ma, forse, sono solo opinioni.