La Sala Titta Ruffo è stracolma, come spesso accade, per assistere all’ennesimo appuntamento del ciclo opere da camera: nel ridotto del Teatro Verdi di Pisa va in scena The Lyric Puppet Show, composizione in due atti dalla concezione fresca e brillante. Sembra di assistere al prodotto di uno scontro frontale tra melodramma e teatro delle marionette, con una forte impronta metateatrale: Orlando – cavaliere di legno, servo dei fili – s’innamora di una spettatrice e sogna di svincolarsi dal suo manovratore per vivere nell’altro mondo con Laura.
Con la sua regia, Stefano Mecenate gioca su un triplice piano: gli spettacoli nello spettacolo, quei segmenti marionettistici sempre simili a sé stessi, sono incorniciati in un teatrino itinerante; sulla sinistra c’è una panca su cui le marionette si riposano, commentano le performance e, nel caso più scellerato, sognano un altro mondo; infine, la platea stessa è spazio scenico dove si trova Laura e dove i due innamorati fuggiranno nel finale (perché «Il teatro tutto può»). Le videoproiezioni fanno da fondale, ma anche da commento emotivo alle scene di backstage.
Negli spettacoli di animazione – messi in scena nella cornice a destra del palco – si ripete sempre un copione consueto: l’innamorato corteggia la dama, ma il di lei fidanzato compare e uccide lo spasimante. La damigella contesa è Adelaide, il mezzosoprano Moon Jin Kim: il suo ruolo, drammaturgicamente mediano tra i due contendenti, è riflesso anche in una vocalità centrale e poco connotata. Roberto Cresca, tenore dalla voce schietta, è Astolfo, villain in abito signorile: sfodera la più riuscita mimica da marionetta all’interno del quartetto, con un movimento della mascella prettamente meccanico. Il baritono Stefano Trizzino è l’eroe: pur bravo anche nelle (non poche) sezioni recitate, spesso viene sovrastato dagli strumenti – ma l’acustica, in effetti, non aiuta. Forte nella sua corazza e fiero con il pennacchio sull’elmo, è il nostro Don Chisciotte che sogna una quête irraggiungibile. L’agognato premio è Laura, la bella spettatrice in impermeabile rosso (ci sia permesso di notare che il basco coordinato è calcato male e, soprattutto, di una tonalità diversa dal soprabito): è interpretata da Mariacarla Seraponte, soprano napoletano che esibisce la voce più sicura della compagine. È interessante che il cattivo, in questo caso, coincida con un tenore, mentre l’innamorato sempre destinato al decesso (anche quando, nel secondo atto, la scenetta è declinata in ambito western) venga interpretato da un baritono.
Marco Simoni, che con questo progetto ha vinto il Concorso Internazionale di Composizione “Gabriella Gentili Mian”, ci regala un piccolo gioiello dal sapore artigianale e non scontato. La musica è frizzante, adatta anche un pubblico giovanissimo (chi ci legge sa quanto la nostra testata stimi il cosiddetto teatro ragazzi), pur mantenendo una raffinatezza difficile da raccontare dopo un solo ascolto. Ad affiancare Riccardo Mascia (pianoforte), un solo strumento, inusuale nell’opera lirica: la fisarmonica. Imbracciata da Roberto Beneventi, conferisce un singolare effetto coloristico alla partitura, rimandando subito la mente a un teatro popolare e di strada. Rischia, a tratti, di essere presenza invadente, ma l’oculatezza nella scrittura di Simoni la contiene nei momenti e nei tempi giusti per un intervento discreto ed efficace.
Il libretto di Fabrizio Altieri cede spesso alla tentazione di volare troppo in alto, volendo affrontare esplicitamente temi profondi come la ricerca della libertà o la speranza per un amore ostacolato da forze più grandi. Quando si concede queste deviazioni, perde la brillantezza che caratterizza l’operazione nel suo complesso: in questi non rari momenti si anela il ritorno a un livello più ingenuo e fanciullesco, ma non per questo privo di possibili interpretazioni da parte di chi ascolta.