Tutti gli spettacoli meriterebbero un manifesto – un’affiche, per fare i raffinati – che, pur rimanendo fisso, incollato a un pannello in doppia o quadrupla copia, riesca ad eccitare la fantasia del passante affaccendato, a incuriosire l’automobilista inchiodato al semaforo, a sorprendere il passeggero distratto sul filobus.
Non tutti ne hanno uno, ahimè, e gli spettacoli che hanno la fortuna d’essere reclamizzati per via di affissioni pubblicitarie ne hanno forse più svantaggi che benefici.
Io, che sono Arlecchino, sono vagabondo per natura. E quando passeggio, ciondolando tra le vie che si svuotano all’imbrunire, mi fermo a guardare i manifesti dei teatri. E giudico.
Anni e anni di vagabondaggio per le strade d’ogni città, paese e continente mi hanno portato a capire (no, capire è troppo, dopotutto sono un semplicione balordo; diciamo “intuire”) che se devi reclamizzare un prodotto è meglio scegliere una bella fanciulla piuttosto che uno sgobbone macilento, una canuta pensionata o una muscolosa virago.
Sento che sulla lingua dei miei lettori premerà il nome di Roland Barthes, e la voglia di alzare la manina per citare il “paradosso della cover-girl”, secondo il quale il corpo della donna in copertina è allo stesso tempo una “istituzione astratta”, e un “corpo individuale”, da cui si capisce che non è la bellezza a essere rappresentata ma la sua immagine deformata.
Io, che sono Arlecchino, non ho ambizioni da secchione, e mi limito a osservare.
È passato un anno (il primo anno di LSDA!) da quando, in questa stessa rubrica, mostravo il manifesto di È stato la mafia, scrivendo che «i volti dei protagonisti, Marco Travaglio e Valentina Lodovini, malamente scontornati e messi in dissolvenza, galleggiano senza potersi ancorare agli altri elementi grafici».
La Lodovini sostituiva all’epoca, nel ruolo di seducente lettrice, Isabella Ferrari, con la quale lo spettacolo aveva debuttato tempo prima. Ma il confronto tra le due differenti versioni dello stesso manifesto mostra che anche graficamente nulla o quasi era cambiato.
Dal 2015 si è passati al 2016. Travaglio è ancora in scena, con un nuovo “spettacolo”.
Il titolo è una voce imitativa del vocabolario dei fumetti: Slurp. La golosità che fa peccato, la cupidigia che non si frena. Il sottotitolo è meno criptico, meno simpatico: Lecchini, cortigiani & penne alla bava: la stampa al servizio dei potenti che ci hanno rovinato. Ecco spiegata la linguaccia tricolore che spunta dalla U di Slurp. Insomma, crediamo di sapere dove andrà a parare.
I più curiosi e accaniti theatregoers si domanderanno quale sia stato il contributo del “regista d’occasione” Valerio Binasco (5 spettacoli firmati nel solo 2015: un piccolo record).
Io invece, con più frivolezza, mi chiedo spesso chi curi la comunicazione del più caustico, flemmatico, carismatico, simpatico giornalista italiano, e chi, in particolare, la grafica pubblicitaria. Che non si tratti di un nuovo Max Huber (Wikipedia soccorra gli smemorati) era già lampante. Ma perseverare negli errori è davvero diabolico, a meno che l’intenzione non sia quella di creare un Travaglio style. In tal caso, appuntamento a gennaio 2017: chi sarà la prossima Travaglina disposta a farsi confinare in un angolino?
Ah, per chi si fosse perso il passaggio cascinese dello spettacolo, Slurp sarà domenica 31 gennaio all’Obihall di Firenze. Io andrei, giuro, ma proprio quella sera ho la finale del torneo condominiale di burraco.