E se, durante uno spettacolo, l’attore in scena citasse con convinzione Nietzsche: «I critici vogliono il nostro sangue, non il nostro dolore», il povero cronista scenico come potrebbe recensire la performance? Lo farebbe con piacere, perché il sangue versato in questo caso è dolce e di buon gusto, e la citazione di Alessandro Benvenuti non ci intimorisce.
Una stanza buia: due sedie in proscenio, poste ai lati e obliquamente rispetto all’arcoscenico, permettono di intravedere sul fondale una chaise longue su cui è adagiata una figura femminile avvolta in una veste di velluto rosso, che lascia scoperta la schiena. Sulla seduta di sinistra, immobile, Alessandro Benvenuti attende l’ingresso in scena della sua controparte, il divertente Paolo Cioni (già visto nell’esilarante Pinocchio di Arca Azzurra, nella rilettura del toscano Ugo Chiti).
Chi è di scena ha una trama semplice e lineare: un artista che non si esibisce da cinque anni decide di concedere un’intervista a un incauto giornalista, per rivelare così i motivi del proprio allontanamento e la sua attuale situazione. Se non fosse per la complessità dei contenuti e delle strutture verbali che si avviluppano in vortici serrati, la vicenda ci parrebbe alquanto banale. Non lo è affatto.
Benvenuti lascia lo spettatore sospeso, non gli dà il permesso di ridere, per non sopraffare, con la risata, l’incalzante sproloquio che il suo peculiare personaggio deve proferire. Una vita criptica, anomala, di un soggetto al limite di una crisi di nervi che, punzecchiato da opportune domande concordate, ripercorre la propria biografia. Non si tralasciano le prime masturbazioni, i propri pensieri sul teatro, come il rifiuto nell’affrontare tematiche quali l’amore o il teatro civile poiché ne derivano applausi troppo facili; vi sono anche paradossali quesiti dalla risposta insoluta, tipo l’atroce dubbio sull’eventuale depilazione di Gesù Cristo, che, nell’iconografia relativa alla crocifissione, parrebbe glabro, a parte i lunghi capelli. Il curioso dialogo è condito da citazioni sia filosofiche (da Nietzsche a Pascal, «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato») sia letterarie (il motto dantesco: «Lasciate ogni speranza, o voi che entrate», riferito al proprio membro nei passaggi a proposito dell’autoerotismo). I due attori si rivelano personaggi macchiettistici, privi del senso della misura, a tratti grotteschi, non permettendo di capire fino in fondo quale sia il limite tra realtà e finzione, come se vi fosse qualcosa di “strano” e di irrisolto, al di là di quel che viene mostrato al pubblico.
L’arcano sarà difatti svelato grazie alla figura di spalle, la cui entità (o verità) non vogliamo rivelarvi, proprio perché su di lei si basa l’intero meccanismo drammaturgico, che avvicina la pièce a un autentico thriller, con tanto di pistole e presunti avvelenamenti. Il commento musicale, composto da nenie bambinesche e sinistri acuti, colora ulteriormente la scena, grazie a un effetto suspense tanto artificioso da sfociare nel tragicomico. Ed è interessante, nella prima parte del lavoro, l’uso della telecamera che il giornalista pone su un piedistallo, il cui girato viene proiettato alle spalle degli attori, permettendo al pubblico di vedere la mimica facciale di Benvenuti che oscilla tra un movimento di collo e una deformante strizzata d’occhio.
Con la rivelazione finale si ha un ritorno alla presunta normalità: i fili si riannodano, i passaggi che prima parevano esagerati (improntati a una certa “scorrettezza politica”) acquisiscono senso, e così l’enfasi nella recitazione, la fissità scenica, le musiche stravaganti: un repentino cambio prospettico che ci permette di sfilare la maschera e tributare un sonoro chapeau a una ben fatta prova attoriale.