C’è aria di festa al Teatro del Giglio per il debutto di La vedova allegra, diretta produzione dell’ente lucchese. L’allestimento rientra nel progetto LTL OperaStudio che, da anni, vede alternarsi i teatri della costa (Lucca-Pisa-Livorno) nella produzione di titoli possibilmente poco frequentati, selezionando e preparando per mesi giovani cantanti più o meno esordienti. Quest’anno il capofila del progetto è stato proprio lo spazio diretto da Aldo Tarabella, che ha scelto l’operetta più famosa del compositore Franz Lehár.
Il titolo aderisce perfettamente alle intenzioni del progetto: anche se emergono due o tre personaggi, la trama è essenzialmente corale, ricca di sottotrame che si intrecciano, favorendo il lavoro collettivo e assicurando a diversi cantanti parti comunque significative. Inoltre, i molti segmenti recitati richiedono una preparazione su più fronti, sicuramente stimolante per i giovani talenti. Il risultato è fresco e brillante, pur su un testo d’altri tempi, con una comicità un po’ troppo innocua per farci ridere davvero. Non mancano, però, le scene che scatenano dirompenti applausi a scena aperta dal teatro gremito e entusiasta.
Il palco è occupato quasi per intero da due vertiginosi scaloni bianchi che si intrecciano e salgono a perdita d’occhio (in realtà, questa è un’illazione: dall’ultima fila della galleria possiamo solo immaginare la porzione che non scorgiamo). La scenografia firmata da Giuliano Spinelli è montata su una pedana girevole, in modo da offrire un’ambientazione sempre diversa alle varie feste cui partecipano dignitari, ambasciatori e funzionari.
L’alta società parigina, in cui il tradimento è cosa consueta, viene messa in subbuglio da una grande novità: il ricco marito di Hanna Glawari è morto durante la prima notte di nozze, lasciando la giovane in uno stato di ricchissima vedovanza. Tutti puntano a sposarla e la fanciulla, suo malgrado, si vede perfino al centro di un gioco di potere, per cui l’ambasciatore Zeta non vuole che il patrimonio finisca nelle mani di un marito straniero. Maria Radoeva, soprano, veste i panni della vedova, unico ruolo di spicco: il resto della compagine rischia di perdersi – almeno in una singola visione – in una massa indifferenziata di mogli dai facili costumi e mariti cornuti (complici anche i costumi d’epoca di Irene Monti, raffinatissimi, ma con limitate connotazioni individuali).
La regia di Fabio Sparvoli è abile nel gestire il traffico della grande massa di personaggi, rendendo sempre fluide le transizioni sceniche. Notevoli, soprattutto nella parte finale, alcune scene quasi oniriche: un ballo a due in una luce lunare, una scena corale che termina in una lunga immobilità generale mentre la giostra gira come un carillon. Il prodotto finale è raffinato come i colori chiari delle scene e dei costumi. Anche l’Orchestra Giovanile Italiana, guidata da Nicola Paszkowski, si muove in sintonia con questa eleganza di fondo che pervade (salvo alcune trascurabili parentesi) tutto l’allestimento.
L’operetta, però, non è solo un titolo che costa meno e che si capisce meglio. All’interno del suo linguaggio sono presenti tratti che saranno comuni all’avanspettacolo e che non possono essere trascurati: non può essere tutto delegato alle gag (in cui primeggia Mario Brancaccio nelle vesti del cancelliere) tra una scena e l’altra. Serve un vero spettacolo d’arte varia, che valorizzi l’imprescindibile componente coreografica: seppur lodevoli, solo tre coppie di ballerini sono troppo poche per le vivaci musiche di Lehár.