I due corsari: immagine appartenente a un’epoca quasi terminata, o no? Senza nemmeno sfiorare la leziosità di un comico alla ricerca della complicità del pubblico, il travolgente duo Checcacci-Fantini, accompagnati dal pianista Giacomo Ferrari, ci suggerisce che quel mondo, così legato all’apparizione televisiva ma anche segnato dall’impegno politico, almeno in parte esiste ancora.
Il Teatro Colombo non conta molte presenze in questo freddo sabato sera, e non posso che dispiacermene: la performance (musica, canto, azione scenica), nonostante la durata considerevole, scivola nel tempo leggera, poco pretenziosa e assolutamente divertente, grazie alla felice impronta cabarettistica.
Il palco è arredato con qualche chitarra (un paio appese sullo sfondo, una poggiata a terra); al centro, due aste con microfoni; una porzione di spazio, sulla destra, è occupata dal pianoforte che accompagnerà l’esibizione. Prima dell’entrata in scena degli artisti, sul fondale viene proiettato un video: Enzo Jannacci in piedi, chitarra in mano, e, seduti a un tavolo, Adriano Celentano, Dario Fo, Giorgo Gaber e Antonio Albanese che, energici, alternando musica e comicità all’improvvisa, intonano Ho visto un re, intramontabile hit di Fo, resa celebre dall’interpretazione dell’Enzino. Correva il maggio 2001, e quella sarebbe stata l’ultima apparizione televisiva di Gaber e Jannacci assieme.
Checcacci e Fantini, entrati ora in scena, si alternano nel raccontare una storia le cui radici affondano negli anni Cinquanta, e che si snoda poi nel tempo, tratteggiata attraverso la musica, cui il racconto verbale fa da cornice. È di una dolcezza nostalgica l’atmosfera che si crea, e il pubblico instaura una sorta di dialogo con i due attori, che, con semplicità, non pretendono di simulare una quarta parete. Con le canzoni e le parole i due delineano le personalità di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, il loro evolversi nel tempo. La conoscenza, l’amicizia, la fondazione del duo che dà il titolo allo spettacolo (a livello puramente discografico, I Due Corsari avranno vita breve, ma lanceranno una serie di hit demenziali come Non occupatemi il telefono o la celebre Una fetta di limone), l’allontanamento del “dottore” (è noto che Jannacci fosse un medico prestato alla musica, o viceversa, come amava scherzare egli stesso) dall’Italia, poi il nuovo incontro, infine, la morte di Gaber. Gli aneddoti danno il colore al racconto: uno tra i tanti, il tentativo (pienamente riuscito) di portare in scena Aspettando Godot al teatro Goldoni di Venezia nel 1991, con Gaber regista e un cast formato da Jannacci, Paolo Rossi e Felice Andreasi, episodio che, a raccontarlo, pare nient’altro che una ridicola burla.
Poche parole bastano a dipingere le affinità e le differenze tra i due: l’uno, il nasone, uomo di spettacolo, a suo agio nel mondo televisivo; l’altro, il cialtrone, dai modi riservati, meno capace di stare sulla scena; e l’amicizia che, tra alti e bassi, lega tutta una vita.
I due cantanti nell’eseguire le varie canzoni non rispettano una chiara divisione dei ruoli, ma, giocando forse inconsciamente su fisicità e presenza scenica molto differenti, si mettono alternativamente nei panni ora dell’uno ora dell’altro artista, riuscendo peraltro a sfruttare bene vocalità differenti: imperiosa e profonda la voce di Checcacci, più alta e tagliente quella di Fantini.
Concludono dunque con le più note canzoni dialogate, da Qualcuno era comunista a Quelli che… e, dopo gli applausi, tornano in scena con La libertà, che vede la spontanea, ancorché prevista, partecipazione del pubblico.