Come la Norma Desmond di Viale del tramonto, Veronika Voss, ex diva del cinema di propaganda tedesco, non ha superato il trauma del ritiro dalle scene. Vive in balia della sua psichiatra, che la riempie di morfina per inibirne la volontà e infine impossessarsi del suo patrimonio. Robert Krohn, un giornalista sportivo invaghitosi di lei, cerca di salvarla. Non ci riuscirà, e la storia di Veronika finirà con una fatale overdose. Questa, in estrema sintesi, la trama del penultimo film di Rainer Fassbinder, Die Sehnsucht der Veronika Voss (1982): un thriller a tinte foschissime, condensate in un bianco e nero sfarfallante, raffeddato, angoscioso. Le catastrofi dell’apparire, i demoni dell’avidità. Forse non il miglior film del cineasta tedesco, ma comunque potente, sempre tesissimo e urgente come una vendetta.
L’adattamento di Federico Bellini e Antonio Latella non sembra mosso dalla stessa impellenza. Chi legge conosce senz’altro il fastidio che si prova nel trovarsi a colloquio con una persona che apre lunghissime e distraenti parentesi, che ama a tal punto il proprio parlare da sperimentarlo in innumerevoli esclamazioni e intercalari. Ti regalo la mia morte Veronika rischia di produrre esattamente questo fastidio (a malapena compensato dall’appagante costruzione scenografica, con giochi d’ombre e una bianca pelliccia a far da fondale-schermo). La sceneggiatura originale è infatti sviata, stenografata, destrutturata, volgarizzata; sicché il contenuto (il contenuto! interessa ancora a qualcuno?) è piegato da un numero di citazioni implicite ed esplicite, continui doppi sensi e slittamenti, metafore cinematografiche, voci microfonate, voci sussurrate, voci fuori campo (ma tutto rimane statico, come in una fassbinderiana inquadratura fissa), straniamenti brechtiani ed elucubrazioni pirandelliane.
Possibile che non esistesse altro modo per lavorare sul soggetto? Possibile che servissero sei maschere da gorilla per vestire i personaggi che si muovono intorno a Veronika (Monica Piseddu) e individuarli come proiezioni di una mente alienata (e poi lasciarli in déshabillé a bivaccare tra le poltroncine da cinema allineate in proscenio)? Ed è possibile che occorresse fare di Veronika – incarnazione di una dea luminosa che vede e sente la sua luce spegnersi – una specie di isterica da lettino freudiano? (ma l’impressione è comunque lontanissima dal sentimento di Sehnsucht, lo struggimento romantico che si riversa in pulsione di morte, e che Fassbinder volle nel titolo della pellicola).
Possibile poi che si debba cedere al vizio di accumulare finali su finali (ne basta uno, anzi spesso non serve nemmeno quello), invitando anche l’incolpevole Cechov nel gioco delle associazioni mentali? Nell’ultima sequenza piove dall’alto un ciliegio fiorito, intorno al quale le eroine fassbinderiane (la Martha del film omonimo, la Margot di Paura della paura, la Elvira di Un anno con tredici lune, e ovviamente Veronika) si radunano per uno stucchevole picnic in giardino, con tanto di maggiordomo giustiziere.
Tutte domande retoriche: lo scostante spettacolo di Latella, che ha le stimmate del capolavoro (per chi crede ai miracoli), sta a dimostrare che sì, è possibile.