Il Teatro Verdi di Pisa è straripante da ogni angolazione lo si guardi. La platea è quasi interamente composta da signore agée, impellicciate, profumate, imbellettate, insomma, “vestite a festa” per assistere all’operetta delle operette: La vedova allegra. L’allestimento rientra nel progetto LTL Opera Studio che, da anni ormai, vede i teatri di Pisa, Lucca e Livorno impegnati nella produzione di opere e operette che non siano troppo rappresentate e calzino bene addosso a giovani cantanti più o meno alle prime armi.
Finalmente il La dell’Orchestra Giovanile Italiana, diretta da Nicola Paszkowski, dà inizio alla magia vitale delle musiche allegre e oniriche, ma mai aggressive o spregiudicate, di Franz Lehár.
Una sorta di diamante bianco, incastonato da due scalinate infinite, abbaglia fin da subito lo spettatore, che si perde nell’osservare questa mastodontica struttura ruotante e praticabile (progettata da Giuliano Spinelli). Dentro, sopra, dietro, intorno a questo gioiello scenografico si dipana tutta la vicenda di Hanna Glavari, rimasta presto vedova del ricchissimo banchiere di corte del piccolo stato di Pontevedro. Un suo matrimonio con uno straniero provocherebbe la fuoriuscita dei milioni di dote della signora e il collasso delle casse statali. Così il sovrano di Pontevedro, preoccupatissimo, incarica il proprio ambasciatore a Parigi, barone Zeta, di trovarle un marito pontevedrino, nello specifico il conte Danilo Danilovich, sua vecchia fiamma.
Intorno a questo semplice plot si inseriscono poi intrighi di corte, tradimenti plurimi, fughe d’amore e feste a base di champagne e lustrini. A giocare un ruolo decisivo nella buona riuscita di un’opera essenzialmente corale, fatta eccezione per la protagonista e pochi altri, sono i raffinati costumi di Irene Monti. Azzeccatissima la scelta cromatica del black & white che fa risaltare cantanti e ballerini come geometriche silhouette sul candore scenografico generale.
La regia di Fabio Sparvoli gioca molto sull’alternanza di momenti di grande mobilità attoriale e siparietti in cui prevalgono il blockage e la gestualità marionettistica. Il tutto per far risaltare l’ambiguità di rapporti di corte, fondati su bugie e interessi economici, che muovono i fili dei personaggi come fossero burattini. Un plauso speciale va alla capacità di Niegus-Mario Brancaccio di far ridere sempre a crepapelle un pubblico che si bea di battute e gags dalla comicità “piaciona” e all’acqua di rose. Delicate e sobrie sono poi le coreografie ideate da Alessandra Panzavolta, benché forse limitate dall’esiguo numero di ballerini nell’esprimere la fastosità di certe musiche.
Da ultimo, una notazione sulla prova canora dei vari cantanti, che in molte occasioni sono stati sovrastati dall’orchestra, non perché questa abbia spinto in modo eccessivo, ma proprio perché troppe volte “Taceva il labbro…” là dove avrebbe dovuto brillare, far esplodere il suono e avvolgere lo spettatore. In più occasioni sarebbe stato utile un corno, non strumentale ma acustico, per combattere l’afonia derivata dall’acerbità di certe voci. Lo scoppio finale di coriandoli sembra però mettere tutti quanti d’accordo nel tributare al cast un applauso conclusivo dal sapore carnevalesco e condiscendente.