Trascorso un decennio da Le lacrime amare di Petra Von Kant, Antonio Latella ritorna a evocare la figura di un altro grande personaggio femminile del cinema di Rainer Werner Fassbinder. Tessendo un groviglio di “meta”, fra teatrale e cinematografico, il regista, in collaborazione con Federico Bellini, riscrive a suo modo la storia di Veronika Voss, attrice in pieno disfacimento psichico, caduta in disgrazia dopo la fine del Reich. Gli anni Trenta in bianco e nero di Fassbinder, distillati nella decadenza del viale del tramonto di una stella, sono posti sotto la lente d’ingrandimento di Latella che tende, secondo una prassi consolidata, a scompaginare i tasselli narrativi e drammaturgici, applicando numerosi inserti originali per una ricomposizione fedele alle proprie istanze estetiche e a una personale visione del teatro.
Ancora una volta, Latella non si smentisce. Il lessico è sempre ricorrente: ricompare la figura, inquietantemente antropomorfica, dello scimmione (già visto nel 2013 in Francamente me ne infischio, spettacolo dedicato a un’altra celebre figura del cinema, di Rossella O’Hara). La luce sulla platea denota la volontà di stuzzicare, provocare il pubblico, desiderandolo non solo partecipe ma anche reattivo. «Aiutatemi…aiutatemi. Non è una domanda, nessun punto di domanda. Aiutatemi, vi prego». Evidente già ad apertura di sipario, dalla richiesta accorata della Veronika/Monica Piseddu fasciata in un abitino color carne e avvolta in un cappotto rosso di spielberghiana memoria, che pure questa volta lo spettatore è chiamato in causa. Ritorna puntale l’interesse di Latella per la metateatralità, dopo l’Arlecchino servitore di due padroni nel quale il discorso veniva portato all’estremo: in questo caso, a rappresentare il groviglio fra piani di realtà e rappresentazione è il personaggio di Robert Krohn (Annibale Pavone), giornalista sportivo invaghitosi della protagonista, posto non a caso fra il pubblico, a inizio recita. L’uomo sale sul palco in soccorso di una ormai morfinomane Veronika, degente e prigioniera in una clinica sinistra, non pienamente consapevole del rischio che corre di scivolare nella drammaturgia e poi nella pellicola, in un cinico e spietato gioco di scatole cinesi.
A marcar qui la differenza, non è il lessico consueto di Latella, volto alla provocazione, bensì la punteggiatura, nel vero e proprio senso del termine. Le sequenze filmiche di Fassbinder, incagliate confusamente nei deliri della protagonista, sono solo evocate, descritte, mai rappresentate, con un poderoso lavoro ritmico-musicale, una notevole forza coreutica che allontana lo spettacolo dal mélo verso la tragedia, intesa in senso classico. È, infatti, il coro di sei scimmie albine a punteggiare, con la stessa virulenza del ticchettio della macchina da scrivere, gli script delle sceneggiature di Veronika Voss, prima di spogliarsi dell’aspetto bestiale per assumere le sembianze dei protagonisti dei deliri della donna, sotto il costante e implacabile sguardo di una macchina da presa posta in proscenio.
Interessante l’alternanza della voce riprodotta e amplificata dai microfoni del coro con quella naturale, con il lirismo del canto, perché non strumentale a un teatro dell’effetto, ma fedele a una precisa ricerca estetica in chiave sonora, una sorta di coro greco contemporaneo, contraddistinto da una recitazione anti-naturalistica, in contrapposizione alla magistrale interpretazione stanislavskijana di Piseddu. Un omaggio al cinema di Fassbinder, alle sue eroine, che, nel finale onirico, si riuniscono alle fronde di un cechoviano e maestoso ciliegio fiorito che precipita lentamente in scena, dando origine a un dolce altrove, in una compiaciuta figurazione che ricorda Le déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet.