Bisogna riconoscere alla stagione di opere da camera del Teatro Verdi di Pisa un grande merito: il coraggio. Cinque date in cui il pubblico pisano ha potuto assistere a opere raramente rappresentate. Quel coraggio è stato giustamente ripagato dalla presenza di pubblico, che ha portato a registrare spesso il tutto esaurito in Sala Titta Ruffo. L’opera Salvo D’Acquisto di Antonio Fortunato, debuttata a Marsala nel 1999, chiude la rassegna in questione.
Colpisce subito l’inusuale disposizione dei posti voluta da Marcello Lippi, direttore artistico musicale del Teatro Verdi e in questa occasione regista: un corridoio si allarga tra le sedie rivolte le une contro le altre, in modo che le due metà del pubblico si trovino faccia a faccia. Mentre una donna in nero piange sul cenotafio di un giovane ragazzo, la figura di Salvo D’Acquisto si staglia sulla porta d’ingresso, in un’aura luminosa generata da un riflettore alle sue spalle.
Nel primo quadro dell’opera, la popolazione accoglie con gioia l’armistizio dell’8 settembre 1943, intuendo però i pericoli di una situazione assai ambigua data la presenza dei soldati tedeschi ancora in Italia. Segue la preoccupazione di Maria, fidanzata di Salvo, che vorrebbe fuggire, mentre il protagonista sente già il senso del dovere. Il secondo quadro vede in scena il rastrellamento nazista, con il conseguente sacrificio del giovane militare che si assume la colpa di un attentato (in realtà fu solo un incidente) per salvare i ventidue uomini su cui stava per scagliarsi la cieca vendetta teutonica.
D’Acquisto è interpretato da Roberto Cresca, cantante già apprezzato nel teatro pisano, ma che in questa serata non pare nella sua forma migliore: denota una certa insicurezza, la stessa che lo porta spesso a cercare con lo sguardo il pianista Eugenio Milazzo (creando, peraltro, uno scollamento probabilmente non previsto tra interprete e personaggio). Al contrario, nella parte dell’ufficiale tedesco interpretata da Veio Torcigliani ritroviamo l’intonazione potente, colossale che ben conosciamo: la voce corposa riempie la sala con facilità. Possente e squillante è anche quella del baritono William Hernández nel ruolo del partigiano. Completa il cast Natalizia Carone: una Maria che, grazie a una performance corretta e chiara pure nella dizione, regala un personaggio estremamente drammatico.
Non si può fare a meno di notare un eccessivo didascalismo nel libretto di Claudio Forti: le donne chiedono ai tedeschi «Non fate giustizia sommaria!»; gli stessi rastrellati notano – neanche fossero Hannah Arendt – come sono stati «trasformati in un gregge obbediente»; il comandante germanico ha troppa coscienza di sé nel prevedere che l’omicidio di D’Acquisto lo renderà insonne per tutta la vita. Un gusto per la sottolineatura che si riflette anche nell’uso ossessivo della parola “Luce”, pedissequo riferimento a «l’esempio luminoso di altruismo», prima annotazione tra i motivi del conferimento della Medaglia d’Oro al valoroso carabiniere.
Maria piange, supplica Salvo di fuggire, cerca di sottrarlo al sacrificio: la ragazza è un ostacolo, una tentazione infernale alla realizzazione, sia morale sia religiosa, del giovane ufficiale. Una caratterizzazione che troviamo abbastanza eccepibile: la femminilità è usata come pretesto narrativo per rafforzare, nel contrasto, la virtù maschile del protagonista. Come se D’Acquisto fosse diventato eroe nonostante Maria.
Né il coraggio dell’operazione né quello del carabiniere possono essere parassitati: un’opera d’arte deve trovare valore in sé stessa, non nel soggetto trattato o nello spirito dell’operazione. Il ricordo della figura di Salvo D’Acquisto è lodevole, ma che immagine ci restituisce dell’eroe? Vediamo un giovane ventitreenne che compie un destino già scritto: una sorta di Cristo che rassicura i compagni, con maestosa serenità di fronte all’incombente sacrificio. Si perde, così, il carattere umano di Salvo D’Acquisto e, quindi, la reale grandezza del suo gesto.