Meriterebbe l’odorama (accorgimento per rendere i profumi al cinema, roba di qualche anno fa) la traslazione in scena del romanzo di Elif Shafak (La bastarda di Istanbul, Rizzoli, 2006) da parte di Angelo Savelli: un avvolgente aroma di caffè nero, misto all’intenso bouquet dolce-pungente delle spezie, dovrebbe invadere l’ampia Nuova Sala Garibaldi di Carrara. E odore di cellulosa, carta, colla, il peculiare e inconfondibile mélange reso alle narici dai libri “veri”, in epoche antecedenti i formati elettronici.
Portare in scena un romanzo è, da sempre, sfida impervia, ma entusiasmante: implica riscrittura, reinvenzione, capacità creativa ed efficace di dar vita a una nuova e distinta opera d’arte. E non è casuale la dedica implicita di Savelli a Luca Ronconi, autore d’una versione scenica del Pasticciaccio di Gadda che resta pietra miliare in tal senso (come la versione televisiva firmata da Giuseppe Bertolucci). Risalire dalla realtà d’una forma allo spirito di un’opera per poi tradirlo, nel senso di tradurlo, in un’altra materialità che rispetti la forma di destinazione. Come dire: il romanzo ha da esser letterario, uno spettacolo teatrale, assunto lapalissiano quando affatto insidioso.
La prima parte di messinscena è occupata dai personaggi: parlan di sé in terza persona, rivolti al pubblico, a mo’ di concerto vocale (nelle interviste, la protagonista Serra Yilmaz parla di sinfonia al femminile), quasi a far capolino direttamente dalle pagine. Storia d’una casa tutta al femminile, dominata dalla presenza matronale di Fiorella Sciarretta e, soprattutto, dalla veggente interpretata da Yilmaz stessa. È lei, ovviamente, l’anima dello spettacolo, presenza sapiente e laterale in grado di sospendere il racconto, quando, nella seconda metà, si passa dalla narrazione polifonica a una drammaturgia più convenzionale. Da sempre, in teatro e non solo, chi vede (o non vede: pensiamo a Edipo) costituisce elemento cardine, stia o meno dentro la storia.
Romanzone, questa saga bizantina, ad abbracciare virtualmente i decenni di una famiglia e di un paese, anzi più d’uno, giacché sullo sfondo aleggia lo spettro del genocidio armeno, ferita nera e tuttora irrisolta nella coscienza nazionale turca, nonché l’emigrazione verso gli Stati Uniti da parte dell’unico, malcapitato/malcapitante (non diremo perché), maschio della combriccola, il Mustafà interpretato da Riccardo Naldini. Il coro muliebre è articolato: svetta, e non tanto per la presenza, Valentina Chico, sorella dell’uomo e madre di Asya (Diletta Oculisti) la bastarda, a rappresentare una generazione turca che mira a ovest del Bosforo, stanca dei cascami religiosi e dell’eredità ottomana. La donna, con Mustafà, sarà l’altra chiave del “mistero” d’una trama che è mera scusa per una narrazione imponente, buddenbrookiana, e che l’allestimento ha il raro merito di presentar con grazia, umorismo, al punto d’invogliare a leggere il libro. Poco importa, infatti, se nelle due ore e mezza di recita affiora qualche incoerenza: è bella la scenografia tutta elettronica di Giuseppe Ragazzini, benché il passaggio dal mimetico all’evocativo non paia sempre fluido (e la sequenza filmica del bar sembri un effettaccio); la recitazione, nel complesso, non sempre è a fuoco e, forse, il drammaturgicamente corretto slittamento narrazione/azione può non aiutare tutti gli interpreti.
Nondimeno, se ci si presta all’incantamento cui ci invita Yilmaz, si resta avviluppati e a quella tavola sempre opulenta d’aromatiche delizie (peccato non siano pietanze vere, ma non siam più ai tempi di Luchino Visconti) sembra di sedere, da imbucati, pure noi.