La fortuna del personaggio di Jep Gambardella è tale da consacrare l’attore campano Toni Servillo nel jet set mondiale, unitamente al nostro immaginario nazional-popolare, quale ambasciatore filmico di quell’italianità tanto pittoresca quanto “decadente” per la quale siamo ricordati in tutto il mondo. Proprio quest’aura fascinosa, nostro marchio di fabbrica, brilla nel discusso film premio Oscar di Paolo Sorrentino, La grande bellezza (2013).
La pellicola viene presentata nuovamente nella gremita sala del Cinema Astra di Lucca, in un’inedita versione integrale che vi racconterò. A introdurla è lo stesso Servillo, che ammicca al numeroso pubblico femminile, gratificandolo per aver il merito del recente sorpasso al botteghino delle sale teatrali sugli stadi, si vedano i casi di Milano e Bologna. Ma questa è un’altra storia, per così dire proprio un’altra partita, che non mancheremo di raccontarvi ai nostri microfoni arlecchini. Il celebre attore, a Lucca per esibirsi nel suo reading dedicato ad autori napoletani (qui la recensione di Giacomo Verde), si prende un ulteriore spazio per innalzare un’ode all’intensità della quotidianità nel lavoro teatrale. L’osservazione dell’artista, quasi a legittimazione del suo presenziare in quanto mattatore scenico più che volto feticcio del grande schermo, non è marginale in questo discorso, dato che è mia intenzione porre l’accento sulla quantità e la qualità della componente teatrale presente nel film di Sorrentino.
Partiamo dai numeri nel cast: la folta e variopinta galleria di personaggi che popolano le interminabili notti romane, tutti comprimari e protagonisti allo stesso tempo, sono per gran parte impersonati, magistralmente, da varie generazioni d’interpreti fra i più interessanti del teatro italiano, a partire dall’Egidio, il magnaccia eroinomane di Massimo De Francovich, e dall’indimenticabile Cardinale dalla fede intiepidita di Roberto Herlitzka. Poco meno conosciuti dal grande pubblico sono forse Giusi Merli, attrice fiorentina di lungo corso nei panni della Santa [nella foto in basso, con Herlitzka], e Paolo Graziosi, attore “di” Giorgio Strehler, nel ruolo di un conte decaduto. A tali “senatori” s’affiancano interpreti di teatro d’autore come Galatea Ranzi, attrice cresciuta con Ronconi, alle prese con le nevrosi di una pseudo-scrittrice, l’assistente bizzarro della Santa reso da Dario Cantarelli, formatosi alla “corte” di Carlo Cecchi. Non dimentichiamo, poi, i vari cameo di Pamela Villoresi e Iaia Forte [nella foto a fianco]nei panni di patrizie romane, e un irriconoscibile Massimo Popolizio con in pugno gli attrezzi del chirurgo estetico. A fianco di Carlo Verdone (anch’egli, un tempo, attore da palcoscenico) e Sabrina Ferilli, c’è quindi una foltissima rappresentanza del teatro italiano delle ultime tre decadi.
Perché Sorrentino sceglie un cast così “teatralizzato”? Forse perché nel film (e ancor più in questa interminabile versione integrale) si coglie quanto il senso del tempo, inesorabile, sia l’unico vero protagonista, impietoso giudice che assiste cinicamente alla dissipazione dei talenti di Gambardella e di un’intera classe dirigente sconfitta in partenza, apatica alle vicende della vita e all’approssimarsi del tramonto senile. Come afferma lo stesso Servillo il film è «una lunga scia d’occasioni mancate» dai protagonisti, nel quale il divario fra tempo della storia e del racconto s’assottiglia, a tratti scompare. L’attore di teatro è, forse, più disinvolto a dar corpo al personaggio non partendo dalla sintesi mimica e verbale, tipica del grande schermo (per la quale con tre battute e qualche fotogramma già il carattere trae forza), bensì procedendo di battuta in battuta, a poco a poco, con tempi più scanditi, più teatrali, quindi, che cinematografici, che si dilatano nei colloqui e negli sproloqui delle lunghe notti festaiole romane. E infine, soprattutto tempi e ritmi della pellicola, per volontà implicita o esplicita di Sorrentino sono “teatrali”, almeno quanto la composizione del cast.
Veniamo, poi, alle principali scene tagliate, che senza dubbio acuiscono il forte senso di tempo logorato, avvizzito, della vita mondana di questi personaggi. Sorrentino non elimina scene che avrebbero decisamente cambiato volto al film, a partire dall’episodio nel quale Gambardella intervista un vecchio regista del passato interpretato da un altro attore teatrale, Giulio Brogi. Un momento molto intenso, nel quale si concentra il messaggio poetico del film, ma forse in maniera troppo didascalica. Questa è l’occasione in cui si sente, dalla bocca di un altro personaggio che non sia Jep, l’espressione «la grande bellezza», quando il regista allude all’incanto provato da bambino, assieme alla folla, davanti al primo semaforo che installarono in Italia nelle strade di Milano. E c’è pure una scena bucolica, in cui si vede la mascolina madre di Ramona/Ferilli, interpretata dalla veterana caratterista Fiammetta Baralla, alle prese con il lavoro nei campi, che non aggiunge nulla al racconto e alla storia dei personaggi.
C’è, forse, un episodio tagliato che, invece, avrebbe “detto” qualcosa in più, chiarendo la parabola del personaggio di Verdone, sul perché decide di fuggire da Roma lasciando la vita di artista mediocre. Di fronte all’ennesima umiliazione subita dalla pseudo-fidanzata cocainomane, il bonaccione decide di scaricarla dalla macchina e poi, pentito d’averla cacciata, prende a rincorrerla. C’è quindi un incontro fra i due, ormai all’alba, sotto l’incantevole scenario di una deserta scalinata di Piazza di Spagna. La donna mercanteggia il passaggio a casa, en travesti con un foulard e l’occhiale da sole alla Audrey Hepburn, facendo mostra delle proprie grazie e invitando l’uomo ad approfittarne.
Infine, un’altra serie di sequenze tagliate pone l’accento sulle ipocrisie e le debolezze del clero pontificio, a partire dalla grottesca rincorsa boschereccia ai tassi del Cardinale/Herlitzka, dell’improbabile conversione spirituale della ricca nobildonna interpreta da Villoresi, che dopo la perdita del figlio decide di lasciare tutto alla Chiesa, fino a un piccolo episodio girato in strada dove si scorge l’appuntamento segreto fra un frate e una bella ragazza. Manifesta è l’intenzione di Sorrentino di stemperare alcuni focus su personaggi e motivi, a beneficio dell’impressione generale del film, per uno sguardo distaccato, una campitura dall’alto, dello sfacelo mondano del mondo di Gambardella, impresso, come di consueto, nelle note di un’indimenticabile e superba colonna sonora.