Nel teatro San Girolamo, in occasione del Lucca Teatro Festival, assistiamo a I Quattro Moschettieri in America, dei Sacchi di Sabbia, compagnia di cui molto abbiamo scritto.
L’idea, come gli stessi attori spiegano a fine spettacolo al giovane pubblico, nasce da un radiodramma che ebbe particolare successo negli anni ’30 del Novecento (un periodo in cui i quattro eroi di Dumas vengono fatti viaggiare per diversi luoghi del mondo). Anche la prima versione dell’opera dei Sacchi di Sabbia è stata destinata all’etere (per Radio3 Rai: potete ascoltarla qui), per poi dare vita al radiodramma animato cui abbiamo assistito. Portato una prima volta in scena al Teatro Bolognini di Pistoia, nell’ambito di un progetto articolato in tre puntate di breve durata, il lavoro viene adesso riunito in un unico spettacolo: la platea si è ampliata, l’età media si aggira attorno ai 10 anni. Possiamo senza remore parlare di virtuosismo: utilizzo di una quantità quasi stupefacente di linguaggi differenti, oggetti scenici mutevoli, capaci di divenire sfondo o addirittura personaggio al variare delle situazioni.
In scena si muovono quattro attori, ma solo Giovanni Guerrieri s’identifica immediatamente come personaggio: è, infatti, Athos, al cui fianco i compagni Porthos, Aramis e D’Artagnan sono cartacei, animati da voci registrate (l’audio proviene dal sopracitato radiodramma). I quattro (perché sì, ribadisce Athos, sono proprio quattro) si muovono nella New York degli anni Trenta, tra gangster e produttori cinematografici, nel tentativo di trovare una nuova ragione di vita. Il racconto, di per sé, è addirittura tragico, al punto che i quattro, giunti al colmo della disperazione, tentano invano di uccidersi: ma possono personaggi di fantasia morire?
Giulia Gallo e Giulia Solano hanno il compito di narrare, l’una scandendo la base (musicale e scenica) su cui l’altra, cantando versi in rima, introduce l’azione. Guido Bartoli, infine, crea la scena, disegnando e dipingendo sfondo, oggetti e personaggi, cui la radio infonde vita. I tre narratori/costruttori, sempre presenti e in azione, non posseggono identità propria e si trasformano, talvolta, nel corpo di cui maschere cartacee si servono per recitare. Inevitabilmente, com’è naturale in teatro così come in radio, ogni particolare si fa evocativo e metaforico, la carta prende vita semplicemente perché l’attore vi si rivolge quale strumenti espressivo; un gioco di ombre cinesi, accostato a una musica frenetica, rimanda immediatamente a un inseguimento; un sasso gettato in un secchio pieno d’acqua è chiaramente un suicida che si getta tra le rapide, e così via.
Mescolando libri pop-up, disegno, recitazione, narrazione, mimo, canto, musica e giochi di ombre, i Sacchi di Sabbia ci regalano uno spettacolo che, pur giocando su un ritmo serratissimo, non manca di sorprendere, allentando il tessuto narrativo così da inserire brevi improvvisazioni; parliamo insomma di un teatro che, finemente elaborato, possiede la malleabilità necessaria (fondamentale, soprattutto se rivolto a un pubblico di ragazzi) per identificarsi come azione che si svolge nell’hic et nunc. Com’è tipico della compagnia (non vi farà male leggervi anche questo) il linguaggio è polisemico, non si tratta di un ammiccante o lezioso spettacolo per bambini, ma di un’opera complessa nella sua delicatezza, che permette la stratificazione del pubblico, dall’ingenuo riso dei più piccoli al sorriso largo e beffardo dell’Arlecchino.