Il titolo dello spettacolo corrisponde a quello di una poesia di Wislawa Szymborska, poetessa polacca la cui notorietà è cresciuta considerevolmente negli ultimi anni, complice il premio Nobel vinto nel 1996 e le traduzioni che sono seguite. Poesie colloquiali, le sue, dal ricamo semplice e quasi senza peso (e nondimeno profonde, e gravi): la morte, se vi compare, ha i piedi piccoli, un sapore conosciuto.
Nello spettacolo diretto da Riccardo Pippa, la Nera Signora ha fattezze maschili, indossa un vecchio cardigan celeste e una maschera mostruosa di cartapesta, e porta con sé una piantina grassa. Seduta su una panchina, attende i malcapitati che si presentano al suo cospetto (la luce di un lampione segnala ogni arrivo), anch’essi mascherati, per accompagnarli, con muta comprensione, nella terra del non ritorno. Per farlo li sfiora, e sfila loro la maschera, lasciando che si adagino esanimi sulle sue ginocchia (aprendo «la maniglia di una porta invisibile», potremmo dire con le parole della Szymborska). Tutto si svolge in silenzio, come una bizzarra e grottesca pantomima, al più con l’accompagnamento di una ferale o ironica colonna sonora.
Ma questo confine o luogo di passaggio, evidentemente in bilico tra l’aldilà e l’aldiquà, non è facile da oltrepassare. Capita che un giovane, vittima di un incidente stradale, sia rianimato all’ultimo istante da un defibrillatore (così intuiamo dalle scariche che lo scuotono); che una prostituta sbandata sia messa in salvo dal provvidenziale intervento di un angelo-ispettore, con tanto di alucce e giubbottino catarifrangente aperto su una poco celestiale pancetta; e che lo stesso angelo convinca un esitante suicida a ritornare tra i vivi (con un esilarante balletto sulle note di Aguas de março). Come siamo portati a credere, sono proprio questi “insuccessi” a causare la sostituzione della inefficace morte, infine rimpiazzata da un’altra maschera in tutto e per tutto simile, ma più elegante, più scrupolosa forse.
In una messinscena senza parole e senza volti, ciò che conta è l’eloquenza del gesto, la misurata precisione dei movimenti, poiché solo su questi si regge il gioco scenico. Ai cinque attori (Claudia Caldarano, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza) non manca la dote di recitare i silenzi, come si suol dire, e gli effetti sonori e luministici sono spesso brillanti sorprese; semmai a tratti è la tensione a calare, sicché i vuoti insidiano minacciosamente i pieni dello spettacolo.
Spettacolo che resta comunque assai curioso, leggero e degno di considerazione. Ripagato con molti sorrisi e applausi dal pubblico livornese presente in sala.