La rassegna Teatri di confine sbarca al Teatro Francesco di Bartolo di Buti con l’atteso Vocazione, ultimo progetto di Danio Manfredini. Il progetto, ideato in un primo momento per il Festival di Santarcangelo, si presenta a Buti nella sua veste definitiva, proseguendo la ricca offerta di repliche in Toscana inaugurata al Teatro Cantiere Florida.
Grande talento poliedrico del teatro italiano degli ultimi trent’anni, Manfredini riflette qui sulla vocazione attoriale, sul rapporto tra teatro e vita e sul cortocircuito che si ha, talvolta, tra la vita dei teatranti e i loro personaggi. Al pubblico viene proposta un’ampia selezione di citazioni sul tema (da Harwood a Čechov, da Fassbinder a Testori). Bene, Manfredini è bravissimo sul palco e le scelte che fa sono pertinenti al tema. E poi? Poi basta.
L’artista passa da un personaggio all’altro, si veste, si spoglia, si riveste in un turbinio di parrucche, maschere e costumi: si diverte Manfredini, lo si vede, nel cambiare così tanti personaggi in poco tempo e la sfida attoriale è indubbiamente superata. Ma qual è, in questa operazione, il ruolo del pubblico?
Manfredini estrania lo spettatore dalla sua riflessione, lo ignora senza fornirgli chiavi di lettura né razionali né emotive. Tradisce così l’essenza stessa del teatro in quanto atto di arroganza: qualcuno sale su un palco e dice «Guardami!». Da una parte, chiede quindi di essere guardato, ma tale sguardo è inutile e, probabilmente, anche annoiato. Non è nemmeno chiaro, in certi frangenti, se Danio Manfredini utilizzi un linguaggio ironico, parodistico o nostalgico. Parla, forse, a chi già lo conosce, ai suoi seguaci che hanno familiarità con la sua ricerca teatrale. Qual è il senso? Il teatro può respingere, se chi è sul palcoscenico dà prova della sua grandezza, può anche disprezzare il pubblico, svelarne la mediocrità e prenderlo come bersaglio (ne è maestro, in questo senso, Antonio Rezza). Qui di grandezza non c’è traccia (ma nemmeno in quel caso sarebbe perdonabile il disinteresse verso il pubblico).
Sfortunatamente, anche i segmenti interessanti e visivamente suggestivi – il celebre monologo di Amleto recitato correndo verso un riflettore o un tip-tap ben giocato – sono neutralizzati dalla spalla Vincenzo Del Prete, attore ligneo che non regge il confronto con il comprimario.
Se, come sostiene il compianto Alfiero Briganti «In teatro esiste un solo crimine: la mediocrità. E una sola aggravante: la pretenziosità», Vocazione merita la condanna più dura. Ma non senza appello, ché il teatro è arte fluida e multiforme e dà spazio a sguardi anche molto diversi.