«Ma che cosa è questo amore / Che fa tutti delirar?» Così Berta, saggia domestica di Don Bartolo in quel capolavoro intitolato per consuetudine Il barbiere di Siviglia. E son passati cinquant’anni che paion secoli dacché Carlo Goldoni licenzia Gl’innamorati, commedia in tre atti con cui ricalibra la messa a fuoco di gustosi meccanismi psicologici in un ondivago rapporto coi cliché della comicità più convenzionale; non rinuncia a trucchi da Commedia dell’Arte, ma, nei pur macchiettistici amorosi Eugenia e Fulgenzio, si riscontrano scarti minuti, cadute repentine, grandi e piccoli spostamenti del cuore che instillano il dubbio atroce affiorante in bocca a Ridolfo: «Possibile che abbiano sempre a fare questa vita? Si amano, o non si amano?»
Rossini, spietato e altezzoso osservator d’umane miserie, la risposta ce l’avrà, ben chiara, e noi con lui: ciò non toglie che l’orditura applicata da Andrée Ruth Shammah alla drammaturgia del nostro comico più classico (Goldoni) rappresenti un efficacissimo sistema di mirare, dal nostro oggi, a un testo del secolo XVIII.
Pareti sgarrupate, un tempo nobiliari, dominate da rosso veneziano senza luce e un bianco sporco marmoreo poi ripreso dai costumi. Le visibili scrostature rimandano alla rovina d’un casato decaduto: di questo, più che di sentimenti, tratta Gli innamorati, il cui recupero della i caduta nell’elisione da italiano settecentesco è primo evidente segno di meditato restauro.
Storia scientemente esilina: due giovani amanti battibeccano allo stremo, rischiando di far saltare il connubio; lei, famiglia in rovina, è proposta quindi a miglior partito, ma, alla fine, tutto va come deve andare e i due colombi convolano a nozze, chissà mai se giuste. La trama viene incastonata in una struttura metateatrale, con lo stesso Goldoni (Albero Mancioppi) a illustrar la vicenda che, già dal titolo, «non promette nulla di buono». Non sarà l’unica rottura d’un impianto altrimenti convenzionale: attori deambulanti in platea, riferimenti espliciti alla commedia, alla finzione, cambi d’abito e scene a vista, con pure l’impiego di candele per un’illuminazione trasfigurata. Trovate talvolta ingegnose talaltra faciline,: ben s’attagliano, però, a un costrutto ideato per una condivisa e condivisibile chiave ludica.
E buon, anzi ottimo, gioco hanno gli attori: Marina Rocco, recente Nora in Una casa di bambola con Filippo Timi e regia di Shammah, è un’Eugenia bisbeticissima e uterina, di frenesie elettriche e infantili pretese. Controcanta con lei Matteo De Blasio–Fulgenzio, incapace a regger i (biondissimi) colpi di testa dell’amata, estenuato, logoro, sfibrato: un disgraziato. E ben fa da coro una compagnia consolidata, col Succianespole di Andrea Soffiantini a raccogliere i più sonori consensi. La schermaglia litigarella divide presto il pubblico: si parteggia per l’uno o per l’altra, nell’ostentata reiterazione di screzi, comici proprio perché sempre uguali. Ecco il sigillo, con la giovane impalmata: ma il lieto fine non scioglie le riserve goldoniane sull’amore futile più che fou di due virgulti d’una borghesia declinante, sulle cui scelte s’adombrano le condizioni economiche quali determinazioni ben meno che umane.
Ma che cos’è questo amore? Se lo chiedeva pure Achille Campanile. Ognuno porta a casa la propria risposta. Per chi, come chi scrive, l’amore è disperato tentativo, tra il frustrato e il frustrante, di rendere vivibile l’invivibile, i due protagonisti stanno a questo come un gelato a una bicicletta. Non v’è amore (ci appoggiamo al politicamente imbarazzante Robert Poulet o all’Ungaretti che definiva tal sentimento «una quiete accesa») dove non si dia conoscenza, tempo, fatica. E noia.
Eugenia e Fulgenzio troppo son presi da sé stessi, vittime, perfetto il titolo, d’innamoramento, vale a dire la più autoreferenziale, e certo ingannevole e forse inevitabile e senza dubbio umana, delle pulsioni.