Il nuovo lavoro di Roberto Bacci si chiama Alla Luce, ma il vero protagonista è il buio. Cos’è l’oscurità in questo spettacolo scritto da Michele Santeramo? La dicotomia buio/luce è il grumo semantico dal quale prende le mosse un gioco di metafore sempre diverse.
In scena un vero e proprio gioco, di cui non comprendiamo bene le regole: il croupier (Sebastian Barbalan) accoglie, con accento esotico, il pubblico e i quattro giocatori, non vedenti, che gareggiano per avere in premio la possibilità di vedere. Il concorrente che a turno pesca la carta più alta decide a quale prova sottoporre gli altri, finché non ne rimarrà solo uno. L’obiettivo è il controllo delle emozioni, e le prove che ne valutano il raggiungimento sono Rivalità, Tradimento, Crudeltà, Disprezzo, Violenza, Prevaricazione e – la più temuta – Paura della Morte. I quattro contendenti sono schierati in due squadre: da una parte, una coppia in cui l’algida moglie (Silvia Pasello) tiene in scacco il marito (Tazio Torrini), già ferito, si immagina, da qualche precedente tradimento. Dall’altra parte, due fratelli (Michele Cipriani e Francesco Puleo) sono bloccati in una relazione simbiotica in cui il più grande, malfidato e cinico, guida il secondo, più ingenuo e facilmente influenzabile.
Non è chiaro come i giocatori siano arrivati lì, da dove derivi il potere del croupier di donare la vista e quali siano gli antecedenti, spesso accennati, tra quest’ultimo e il personaggio interpretato da Pasello. Quel che è chiaro, invece, è che questo spazio neutro – tanto stretto e profondo da ricordare un corridoio – sia un contenitore di simboli più che di storie, di metafore più che di emozioni. La vaghezza del significato e del senso – paragonabile al rapporto parziale che un non vedente ha con la realtà – rende possibile nello spettatore un gioco di metafore che si smarcano sempre da sé stesse: ora il buio è la morte, ora si può interpretare come l’essere tenuti all’oscuro di qualcosa o, più semplicemente, è la condizione di ciecità. Il buio, portatore di tutti questi significati, è sempre presente: accoglie gli spettatori all’inizio dello spettacolo e ne segna la conclusione, lentamente e inavvertitamente, seguendo la crescita di pathos nel monologo finale dell’unico personaggio femminile.
La forza della messinscena è il potere di suscitare riflessioni, incidentali e impreviste, in chi vi assiste; ma, alla fine del viaggio mentale in cui ci hanno condotti Bacci e Santeramo, ci rimane il dubbio se questa ricchezza metaforica sia effettivamente presente nello spettacolo o se non sia un’inferenza dello spettatore di fronte a un oggetto oscuro.