Si è conclusa la bella stagioncina intitolata Invasioni a Forte dei Marmi, piccola rassegna di tre spettacoli che, nonostante circolino da tempo, restano sconosciuti ai più, specie in Versilia, terra ancora non del tutto adusa al teatro “di ricerca”. Abbiamo visto Homo ridens, firmato dall’interessante gruppo – e già recensito su questi schermi – di Teatro Sotterraneo.
Una bomba a orologeria che ogni tot angustia lo spettatore, vero protagonista della performance, immolato a cavia da laboratorio al fine di studiare i meccanismi del riso. Chi fosse un minimo edotto potrebbe riscontrare sin da subito i dettami che si trovano in celebri volumi quali Il riso. Saggio sul significato del comico di Henri Bergson, il Motto di Spirito e la sua relazione con l’inconscio di Sigmund Freud, L’umorismo di Luigi Pirandello o, semplicemente, i meccanismi che permettono la tanto agognata “risata” (ripetizione, decontestualizzazione di un oggetto, derisione di un soggetto beffato). Homo Ridens è un manuale del comico dove, lo ammetto, mi sono divertita, benché, una volta concluso lo spettacolo, mi sia chiesta cosa abbia, in realtà, visto. Forse sta in questo il “mestiere” di Teatro Sotterraneo, nella capacità di lasciar il pubblico con interrogazioni sulla performance, su sé stessi o sull’umanità in generale.
La scena è vuota, se non per qualche oggetto piazzato alla bisogna; i quattro attori, con la sala totalmente illuminata, scendono tra il pubblico, sottoponendolo a un test sino a giungere a un risultato paragonato a quello ottenuto in altra città dove si è svolta una replica precedente. Le ripetute verifiche sono studiate, ma spesso risultano semplici: dall’iniziale riproduzione di un peto all’insistente uccisione di un personaggio in scena. Invece, la riproduzione di immagini “toccanti” (un bambino pelle e ossa, una mano mozzata con l’indice teso, una schiera di cadaveri) accostate a una scelta multipla di ipotetici titoli (due di essi in antitesi con l’immagine, da autentico humour nero, uno alquanto perbenista stile “non c’è niente da ridere”) risulta molto più coinvolgente, soprattutto per la reazione del pubblico, che ride alle trovate più efficaci, ma che, in seguito, alza la mano offrendo risposta più “corrette”. L’esperimento dura circa 30 minuti: gli artisti, suscitando altri sorrisi, affermano che “per poter dire di aver fatto serata, uno spettacolo deve raggiungere i 50 minuti”, quindi “prolungano” la performance un’altra ventina di minuti, grazie a un “glossario” di citazioni comiche più o meno contemporanee, per un’esilarante carrellata che va dal “bucio de culo” tratto dalla fortunata serie tv Boris al Varietà con annesso stacchetto musicale.
Ciò che non convince fino in fondo è legato alla sensazione da “veramente stanno cercando di farmi ridere con questo?”, con un insieme di immagini che si susseguono come sketch senza un percepibile filo logico. Si ha l’impressione di assistere a un lavoro d’improvvisazione assemblato in forma di spettacolo, il cui tema conduttore è il desiderio di analizzare ciò che scatena il riso. E a non convincere del tutto è pure la mancanza di un inizio e una fine, tanto che lo spettacolo potrebbe durare 5 minuti come ore intere, e potrebbe addirittura generare una serie infinita di performance analoghe in cui, ogni volta, abbia luogo un test diverso sul pubblico.
Vado a teatro, rido. Torno a casa e penso. E, in effetti, questo vale già da solo il costo del biglietto.