Cari lettori, chiudete gli occhi. Anzi, uno solo: con l’altro continuate a leggere. Con quello chiuso immaginate.
Prendete una scenografia a caso, magari con qualche colonna imponente, di quelle che ricordano un paesaggio egizio (così potete anche riutiliazzarla per un’Aida). Aggiungete otto cantanti di discreto livello e vestiteli con dei costumi trovati a una liquidazione di un negozio di abiti di carnevale. Il protagonista lo vestite come un pirata dai colori sgargianti; agli altri date dei vestiti con colori a caso (tenui, pastello, fluorescenti, quel che più vi piace); addobbate il Convitato di Pietra come un astroanuta; dei vestiti bianchi rozzamente settecenteschi alle comparse (vi siete scordati il costume per Zerlina? e allora uno bianco anche a lei!); cospargete il tutto con un numero imprecisato di cappelli a tricorno. Ci siete? Bene: potete immaginarvi il Don Giovanni che noi abbiamo visto al Teatro Verdi di Pisa. Cosa dite? Ci siamo scordati la regia? No no, tranquilli: non c’era nemmeno lì.
Non scherziamo: un regista ci vuole. Eppure del lavoro di Enrico Castiglione non si trova traccia. Sul programma di sala non ci sono nemmeno le note di regia, e mai come in questo caso ce ne sarebbe bisogno. Si comincia subito male, quando il protagonista fugge da Donna Anna, che lo insegue: qui i due escono dalle quinte e si fermano a cantare nell’angolo. Don Giovanni non tenta nemmeno di divincolarsi e non è mascherato: perché Anna lo trattiene? Perché non lo riconosce? Queste sono solo le prime di una lunga serie di storture che trapunta una messa in scena lasciata a sé stessa. I cantanti sembrano sul palco senza indicazioni: quelli con meno talento istrionico risultano spesso ai limiti del ridicolo, ma anche chi di loro ha più espressività è sacrificato sull’altare della monotonia (l’ottimo Leporello, Andrea Patucelli e Lavinia Bini, nei panni di Zerlina, la cui brillantezza avevamo già avuto modo di apprezzare come protagonista in Il matrimonio segreto a Lucca). Dopo più di tre ore di spettacolo ancora ci chiediamo quale fosse l’intento del regista: la scenografia è sempre la stessa, ogni tanto spunta una muraglia, ma è un artificio esclusivamente funzionale all’ingresso di piccoli arredi di scena. Non si tratta di una rappresentazione fedele dell’opera perché non riesce a riprodurre nemmeno le didascalie del libretto – oltre all’ambientazione vaga e ai costumi incoerenti.
Sì, stiamo recensendo un’opera lirica, ci avviciniamo alla fine dell’articolo e ancora non abbiamo accennato alla parte musicale: un po’ perché le nostre competenze in materia sono limitate, ma, soprattutto, perché in questo caso le perplessità sono troppo urgenti. Per i loggionisti, per chi ama l’opera lirica, oggi abbiamo ascoltato un ottimo Don Giovanni: financo la povera Agata Bienkowska (Donna Elvira), colpita da un brutto raffreddore, ha dato una discreta prova di canto.
Ma nel 2014 bisogna sedurre un pubblico nuovo. Quel pubblico impaurito che la lirica sia proprio questo: gente che canta su un palco, per ore, in maniera incomprensibile e con una musica vecchia di duecento anni. L’opera era un genere popolare e può ancora esserlo: è compito della regia prenderla dalla polvere dell’ascolto ingessato e riportarla nella categoria dello spettacolo.
Il Teatro Verdi, a onor del vero, non ha problemi di pubblico: in entrambe le recite ha fatto il tutto esaurito, segno evidente dell’impegno nel formare e fidelizzare il pubblico. Proprio il mito dongiovannesco sarà al centro di un’imponente progetto di esplorazione che coinvolgerà il Teatro e l’Università nei prossimi 14 mesi: Una gigantesca follia proporrà 9 allestimenti lirici, 4 in prosa e un vasto calendario di incontri. Una coraggiosa scommessa -nel desolante panorama lirico italiano- che però inizia davvero con il piede sbagliato.