Quando, in un’epoca a venire, si dovrà scegliere che cosa salvare dell’ipertrofica e ingiustificata offerta teatrale di questi anni, crediamo (o speriamo) che a cadere falcidiati dall’oblio saranno molti barbarismi della “ricerca”, le forme ipocrite del teatro civile/politico/educativo, gli idiotismi beceri del teatro di cassetta. Resteranno invece quei progetti durati nel tempo, a dispetto di numeri e fiancheggiatori, purché segnati da una chiara, autentica e riconoscibile marca stilistica. Tra questi, è possibile includere il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli.
Piu volte l’immaginario del duo messinese è stato comprensibilmente avvicinato a Beckett e Pinter, per le ambientazioni claustrofobiche, gli scenari umani disperanti, l’uso di un linguaggio enigmatico, surreale, bizzarramente comico per la tendenza a impuntarsi (riferimento ulteriore, almeno per chi scrive, è il mondo dei palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco, in specie per i tempi della battuta, nel ripetersi patologico di semplici stereotipi, tra pause lunghissime e rilanci insospettabili). Oggi, essendo arrivati all’ottava commedia (in vent’anni di carriera), dovrebbe essere giunta l’ora di far decadere il facile apparentamento con il repertorio che fu etichettato come “teatro dell’assurdo”.
Questo Amore, scritto da Scimone e diretto da Sframeli nella scena progettata da Lino Fiorito (come gli ultimi due spettacoli, Pali e Giù), ha come novità principale la presenza di una donna, mai apparsa “fisicamente” nei precedenti lavori. Il polo femminile è incarnato da Giulia Weber, nella parte di una vecchietta intenta a sferruzzare, unita da anni al compagno (lo stesso Scimone) che chiama con insistenza “Amore”, e a cui ricorda con altrettanta insistenza l’intimità del passato.
Ma, nel loro dialogo ripetitivo e istupidito, sesso e passione sono solo allusi, con metafore mai del tutto esplicite, così come sottinteso è l’amore omosessuale dell’altra coppia in scena. Ci troviamo in un cimitero stilizzato, o così deduciamo dai cipressi dipinti sul telo retroilluminato che fa da fondale e dalle due tombe in palcoscenico, con tanto di crocette elettriche sulla lapide. Ed è qui che “spuntano”, quasi evocati dai ricordi della donna, due pompieri con il loro mezzo: un carrello della spesa non privo di volante, sirena e lampeggiante. A “bordo” il comandante (Francesco Sframeli), sospinto dal sottoposto Gianluca Cesale. Anche in questo caso, con toni smorzati e dizione appena sporcata dal dialetto, è il passato a riemergere: gelosie, vergogne, momenti appartati, vacanze forzatamente separate non possono che richiamare i sotterfugi di un rapporto clandestino.
Sicché il finale, con le due coppie che occupano i due letti-tomba infilandosi sotto bianche lenzuola e dichiarandosi amore per l’ultima volta, pare un invito alla rieducazione sentimentale, da compiersi prima che sia troppo tardi.
Lo spettacolo dura appena 50 minuti, è recitato con grazia e misura, ovvero con una sorta di metafisica immobilità, ha momenti quasi poetici e altri irresistibilmente comici, ma nel complesso è troppo poco (e la lentezza titubante del pubblico nell’abbandonare la sala del teatro di Rosignano Solvay vale forse a confermare quest’impressione).