Tre donne in scena si intrecciano i capelli. Tre sorelle si prendono l’una cura dell’altra, gesto appartenente a un universo di affetti vissuto nella quotidianità della famiglia; Goneril (Caterina Simonelli), Regan (Silvia Tufano) e Cordelia (Maria Bacci Pasello) si mostrano agli occhi di chi guarda, prima che la tragedia le inghiotta.
In Lear, ultima fatica di Roberto Bacci, è lo spazio a fungere da personaggio principale. Attraverso grandi teli di tyvek paralleli al proscenio, il palco è suddiviso in sette sezioni. Uno ambiente che vive e respira, dilatandosi e restringendosi sui personaggi del dramma. Il mondo creato per Lear da Màrcio Medina pare in possesso di una sorta di silenziosa coscienza. Le stoffe, dipinte con tinte di terra, si gonfiano attorno alla follia del sovrano, si chiudono sulla purezza di Cordelia, si spalancano sull’ambizione ingorda di sorelle e fratelli.
Nel riportare una visione di questo spettacolo, è impossibile non soffermarsi sulla figura del protagonista. Il re è donna, o meglio, il corpo del re è quello di donna. La materia umana ha le fattezze di Silvia Pasello, ma il pensiero resta quello di uomo, di vecchio. Nel Lear di Shakespeare non c’è posto per una madre e la Pasello soddisfa tale volontà facendo albergare in sé lo spirito del Re Padre.
Stefano Geraci rielabora il testo e decide di eliminare alcuni personaggi. Sopravvivono, oltre a Lear e le tre figlie, i due figli di Gloucester (Francesco Puleo) e, cioè, il legittimo Edgar (Savino Paparella) e il bastardo Edmund (Tazio Torrini), oltre al buffone (Michele Cipriani). La volontà dello spettacolo divide questi personaggi superstiti e assegna, a chi porta sulle proprie spalle il destino della tragedia, una maschera che annulla le fisionomie e trasforma i corpi in presenze.
Lear teme il vuoto che si schiude attorno a sé, il gorgo nero in cui le figlie, lentamente, lo spingono. Si spoglia della regalità e, nel farlo, la mente allenta i nodi che la mantengono presente: il niente sopraggiunge inesorabile.
La scena asseconda la morte e lo spazio, negli ultimi istanti della tragedia, diviene campo di battaglia. I teli, infine calati a terra, assumono sembianze di soldati caduti cui si riservano gli onori di chi sacrifica la vita per la patria. È in questo ambiente desolato, completamente aperto, agonizzante, che ognuno dei personaggi incontra il proprio destino. Al buffone, tornato in scena attraversata la platea, il compito di celare, dietro un sipario intriso di luce vermiglia, tutto quello che è appena avvenuto. La morte si nasconde sotto la copertina di un difficile libro di cronaca familiare prima che il buio sopraggiunga per non lasciare alcun resto.
Lo spettacolo trae forza nella scena, capace di scandire i tempi del dramma che, gradualmente, prende forma. Ma, al di là della suggestione donata dal respiro delle stoffe, risulta comunque difficile avvicinare un simile allestimento. Si resta a distanza, osservando da lontano, senza quasi avere la possibilità di prendere parte, emotivamente, alla dinamica. Si ammira, temendo però il subentrare dell’indifferenza, si guarda con la voglia insoddisfatta di lasciarsi sporcare le mani, si resta consapevolmente seduti sulla propria poltrona.