Tre opere per la 79° edizione del Maggio Musicale Fiorentino: tre titoli scarsamente frequentati e, quindi, preziosi. Il primo appuntamento è Iolanta, ultimo lavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij, un atto unico su libretto del fratello Modest. Plot inconsueto, il cui punto di partenza è tanto originale da non richiedere un eccessivo svolgimento. Iolanta è la figlia di René, re di Provenza: cieca dalla nascita, il padre la isola dal mondo per non farle avvertire il peso della mancanza della vista. Un medico mauritano visita la ragazza, che potrebbe guarire soltanto comprendendo la sua deficienza e desiderando ardentemente di vedere. Interviene un principe o, meglio, un conte, in forma di tenore: Vaudémont si introdurrà quasi per sbaglio nel giardino di Iolanta e i due si innamoreranno.
Principesse, cavalieri, stregoni: un mondo di favola, ripreso dal danese Henrik Hertz, con vaghe origini nella vita di Iolanda d’Angiò. La regia di Mariusz Treliński circonda tutto di un’atmosfera cupa e tenebrosa, con un tocco di riguardo solo per la protagonista: in un mondo capovolto, solo la sua stanza splende di candida luce, mentre il resto è all’oscuro. La scenografia di Boris F. Kudlička ha come perno (letteralmente), la camera della fanciulla: un cubo che ruota su sé stesso, chiuso da una parete solo da un lato. La protagonista è al buio, fisiologicamente e simbolicamente, eppure è colei da cui s’irradia la luce. Chi le sta intorno si muove in un giardino, evocato da tronchi neri le cui radici sono sospese nel vuoto, memoria del “sottosuolo” in cui si svolge la vicenda. Tale altrove nascosto non è solo la realtà della reclusione, ma anche la profondità: quando incontra Vaudémont, Iolanta lo crede superficiale, non potendo concepire le parole del suo interlocutore, come visione, luminoso, rosso. Per lei gli occhi servono solo per piangere e chiede “Perché mi lodi? Ci incontriamo per la prima volta…”.
Tutto in quest’opera è scontro di (non)visioni, più che di aspirazioni o sentimenti. La drammaturgia si svolge per conflitti, piccoli nuclei in cui il senso si compone a strati. Questo allestimento ambienta l’intrigante vicenda in una quotidianità irreale, in cui tutto trasmette la naturalità di azioni routinarie intorno alla protagonista: le anonime infermiere che vanno e vengono; i teschi appesi al muro, a ricordare numerosi sacrifici animali come quello cui assistiamo in scena; un re militare turbato dal destino della figlia, ma che ci dà l’idea di avere molti impegni incombenti; il cavaliere Vaudémont, che trova l’amata mentre scia nei boschi con l’amico Robert.
Un cast di ottime voci, quasi tutte d’importazione ex-sovietica: il soprano Victoria Yastrebova è una Iolanta forte e risoluta; il re René, nerovestito e pieno di ripensamenti, è il basso Ilya Bannik; l’amato Vaudémont è il tenore Vsevolod Grivnov, altalenante nel convincere il pubblico fiorentino; voce forte e corposa per il baritono che interpreta Robert (Mikołaj Zalasiński), così come quella profonda del medico Ibn-Hakia (Elchin Azizov, basso). Sul podio dell’Orchestra del Maggio troviamo Stanislav Kochanovsky, direttore capace nel rendere a dovere gli impasti orchestrali di Čajkovskij. Il compositore russo, improntato al sinfonismo più che alle forme del melodramma, predilige spesso i fiati, ma affida il maggior peso orchestrale ai violini: ritroviamo anche nella musica quell’atmosfera tenebrosa in cui il regista ha calato l’opera.
Applausi lunghi e calorosi da parte della non affollatissima platea dell’Opera di Firenze.
ph. Michele Borzoni/Terraproject/Contrasto