Io, che sono Arlecchino, bighellono tra platee, tribune e palchetti. Sbircio, vedo, sguardazzo e, quando posso, m’infilo pure a cena, dopo spettacolo. Non di rado, con le persone giuste, le cene tardive, consumate in trattorie e luoghi consimili gestiti da compiacenti ristoratori, si tengono i “veri” spettacoli.
E in un giovedì marzolino, tra la brezza primaverile che ancora sa d’inverno alle pendici delle Apuane, mi trovai assiso con Elisabetta Salvatori e Massimo Grigò. Poco prima, quest’ultimo s’era esibito in Le veglie di Neri, una bella lettura scenica dai racconti di Neri Tanfucio (al secolo Renato Fucini), omaggio a una Toscana che (forse) un tempo c’era e adesso di certo non c’è più, se non in un cartolinismo a sfondo commerciale che, pure in chiave artistica, trova numerosi (ma in calo) esponenti. Non Grigò, va detto, e sia un complimento: voce caldissima, ricca di armonici e ottimamente dosata, invidiabili figura e portamento, con tempi comici abbeveratisi alla fonte di Carlo Monni (e non solo), per una carriera ricca di sorprese. Non con lui, però, voglio parlare, almeno stasera, ché già tiene banco a suon di aneddoti (irresistibili), ma con Elisabetta, “padrona di casa” gentile, quasi timida, d’una grazia delicata.
È versiliese, abita a Forte dei Marmi, e rappresenta un esempio di coerenza, artistica e personale. Narratrice e narrattrice, vive raccontando storie, in quella dimensione lattiginosa in cui il teatro “ritorna” alla parola offerta, da attore a spettatore. I suoi spettacoli la vedono sempre da sola, esile ma forte, accompagnata spesso da un musicista: sono dedicati ad avvenimenti importanti ancorché trascurati (ne citiamo alcuni: Scalpiccii sotto i platani, ispirato all’eccidio commesso dai nazisti a Sant’Anna di Stazzema; La bella di nulla, storia di Giuseppina Silvestri, donna versiliese, raro esempio di forza muliebre; Il partigiano Amos, storia di un giovane poliomelitico, musicista, torturato e ucciso dai tedeschi sempre in Versilia; Piantate in terra come un faggio o una croce, le storie di Caterina da Siena e Beatrice di Pian degli Ontani, una santa e una poetessa, di cui altrove un arlecchino scrisse). Personaggi spesso “al limite”, artisti caratterizzati da una vita complicata, tradotte in opere di grande sensibilità poetica (si pensi a Delicato come una farfalla e fiero come un’aquila, dedicato alla vita del pittore Antonio Ligabue e recensito su queste colonne qualche mese fa).
Innanzitutto, sette, anzi, nove domande.
Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Perché non è né troppo tardi né troppo presto.
Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
Caramelle, patatine, tutto quello che scricchiola.
Che opinione hai del pubblico teatrale?
Altissima. [Massimo Grigò rumoreggia e ridacchia].
Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
Tutt’e due. In entrambe le situazioni penso di poter vedere qualcosa di buono.
È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
Questa domanda non la capisco troppo… A essere sincera, ti dico che non saprei.
Che senso ha, per te, la critica teatrale?
Senso lo ha eccome. Rappresenta un punto di vista interessante: tutto quello che viene detto, e che quindi viene suscitato, da uno spettacolo, e ovviamente da un mio spettacolo, mi pare degno di ascolto. A seconda di cosa leggo o sento dire, al di là del piacere in caso di apprezzamento, posso recepire, modificare in qualcosa il mio lavoro, farmi pensare a qualcosa che non avevo presente. Mi sembra una cosa molto utile. [“Questa me la appunto”, sibila Grigò che, adesso, rimpiange d’aver lasciato a Elisabetta la priorità del dialogazzo arlecchino].
Che spettatrice sei? Cosa dovrebbe “fare” un’opera?
Emozionarmi, farmi ridere, farmi piangere, farmi pensare. E stupirmi.
Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
Quello che abbiamo appena visto: Le veglie di Neri, la lettura di Massimo Grigò. Sarà che siamo “a caldo”, che si tratta di uno spettacolo che avevo già visto più volte e che mi piace, ma posso dire molto sinceramente che lo rivedrei ancora volentieri.
Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
Non voglio sembrare arrogante, però devo dire che non c’è un lavoro che avrei voluto evitare: ho fatto sempre cose in cui credevo e che mi interessavano. Se, invece, dovessi scegliere un solo mio spettacolo da mostrare, penso che sceglierei Viola (qui il doppio sguardazzo: Vazzaz e Balestri), dedicato e ispirato al poeta Dino Campana.
E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda:
Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
No… bisogna essere più svegli per queste cose… [nel frattempo, ci servono grappa, e il gestore del ristorante azzarda un suggerimento un po’ licenzioso, con lo scontato avallo di Grigò].
In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
Salviamo Arlecchino?
Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
Su Emma Dante qualcosa andrebbe detto, sì… [Grigò prova a dare suggerimenti à la toscana, ma non viene ascoltato] Uhm… eviterei pure questa.