Il penultimo titolo nella stagione del Teatro Carlo Felice di Genova è Salomè, opera che Richard Strauss ha tratto nel 1905 dall’atto unico di Oscar Wilde, aggiungendo anche il melodramma alle numerose forme d’arte che, nei secoli, hanno fatto rivivere la storia della figlia di Erodiade che pretende la testa del Battista. Erode, patrigno di Salomè, si invaghisce della figlioccia e la implora di ballare per lui, promettendole qualsiasi cosa in cambio: la sensuale ragazza chiederà la decollazione del profeta imprigionato che, poco prima, l’aveva sprezzata.
L’allestimento firmato da Rosetta Cucchi mette in scena la vicenda in un’ambientazione fuori dalla storia, arcaica e possente: la scenografia di Tiziano Santi è composta quasi esclusivamente da sette cornici dorate, strutture portanti che collasseranno, nel finale, ogni volta che Salomè insisterà nel chiedere la testa di Jochanaan (traduzione tedesca del nome Iokanaan, il Battista). La luce radente e dorata crea un’atmosfera chiaroscurale, con punti fortemente illuminati e altri ammantati di mistero. In questo impianto astratto i simboli diventano importanti, benché poco leggibili senza spiegazioni, come le maschere funerarie di Agamennone a coprire il volto delle sette figure che sembrano perseguitare Salomé: sette re che, a quanto pare, simboleggiano «il vero volto del potere». Saranno invece un segno più chiaro, nel finale, quando i calchi d’oro saranno in mucchio davanti alla protagonista, evocando gli scudi dei soldati sotto i quali, nel dramma, finirà schiacciata.
Una buca al centro della scena lascia immaginare la prigione sotterranea di Jochanaan, che vedremo, come una proiezione, dietro il fondale della scena. Il profeta è Mark Delavan, baritono dalla voce schietta e squillante, ma ben lontano dal physique du rôle che ci si aspetterebbe per un uomo segnato da una lunga prigionia, in cui comunque si riflette una bellezza macabra e travolgente. Vestito di bianco, in contrapposizione al rosso sanguigno di Salomè, sarà macchiato di terra dalle figure misteriose che accompagnano la protagonista. La seducente principessa di Giudea è il soprano Lise Lindstrom, voce potente e raffinata, dal timbro ricco. Si esibirà in una danza in cui, togliendo a uno a uno i sette veli, atterrerà le maschere che la circondano: bellezza fatale che resterà a ballare, nuda, in una danza via via più frenetica che seducente. La testa di Jochanaan, alla fine, è un teschio bronzeo e cavo: Salomè ne bacerà la bocca, ma dall’interno, dopo aver bevuto il sangue rimasto.
Le trovate in questione potrebbero essere interessanti, ma risentono di un’esecuzione poco curata: per esempio, battendo la mano sulla scenografia si sente che è cartongesso. Altre legnosità (la morte del siriaco, alcuni cambi luce poco fluidi, le comparse mal nascoste mentre si sistemano) e un didascalismo eccessivo offuscano la visione di Cucchi, che si perde dietro un fluire ininterrotto di sbavature. Per la regista pesarese è come se la visione fosse talmente potente da poter chiedere al pubblico di trascurare i dettagli trascurati. Se in altri allestimenti si trovava una potente traslazione ambientale (spesso ispirata ad atmosfere cinematografiche), in questo caso la messinscena − tolte le maschere, il sangue e un po’ di carnazza − è abbastanza tradizionale e quasi banale.
Fabio Luisi guida un’Orchestra del Carlo Felice in ottima forma, in grado di evocare la tensione e la profondità della musica di Strauss. Pubblico plaudente, benché non troppo numeroso.
ph. Marcello Orselli