È curioso, talvolta, come lo scorrere del tempo finisca per creare piccoli cortocircuiti, arrivando ad attualizzare lavori realizzati tempo addietro, sino a farli apparire, senza che di necessità lo siano, “d’occasione”. Questo è il caso di Roccu u stortu, vibrante solo di Fulvio Cauteruccio, singolare, e per questo interessante, caso di teatro canzone, diverso e divergente rispetto alla strada aperta dagli “inventori” del genere, Gaber e Luporini, una quarantina buona di anni or sono. La storia di questo fool calabro, brutto, sporco e (poco) cattivo si lega, infatti, a doppio filo con la trama sonora intessuta da fisarmonica, chitarra e voce di Peppe Voltarelli, cantante e strumentista del gruppo Il parto delle nuvole pesanti che, nel 2001, realizza un album (23 tracce in tutto) omonimo allo spettacolo.
Il canto della cicala cede a quello dei grilli, mentre il tufo della rocca di Montestaffoli a San Gimignano si stempera nell’azzurro notturno estivo. Il manto erboso ospita una sgarrupata trincea in cartapesta, fondale metaforico e praticabile intorno (e sopra) al quale l’attore darà vita alla recita (nella più ricca versione originale, v’era un’impalcatura su cui stava l’intero complesso musicale). Voltarelli, a sinistra, è figura anfibia: commenta, punteggia musicalmente il dettato, talvolta da ammiccante cumpare del protagonista, per un divertito gioco di controscena a mantenere il costrutto in una fertile precarietà rappresentativa, la stessa da cui prende le mosse la recita. Canotta lacera e lorda, mutande di stracci, u stortu (in calabrese, lo scemo) motteggia e attacca briga, ruzzando abilmente con la quarta parete, forte d’una guappa tamarragine che trova buone sponde tra i presenti. È solo l’abbrivio, comunque efficace, per poi dar la stura alla vicenda del Battaglione Catanzaro, composto per intero da meridionali, formazione tra le più affidabili e colpite nel corso della straziante Grande Guerra.
Il racconto si fa limaccioso: alla voce dell’attore si sommano quella di Flavia Pezzo (ieratica presenza assisa in posizione speculare rispetto a Voltarelli) e una serie di interventi off ad ampliar lo spettro acustico e informativo del discorso. Roccu, elmetto cacciato in capo, vive la sua guerra di lettere, incertezza, orina, comandi, disperazione e sangue, brandendo via via un crocifisso di luci vermiglie destinato a rovesciarsi in un singolo raggio diafano. E se la narrazione, frantumata nel petroso trionfo gutturale di Calabria, si carica d’una frenesia caliginosa smarrendo a più riprese il fuoco (gli elementi si moltiplicano a discapito dell’amalgama), le canzoni di Voltarelli, in lingua, in dialetto, in un meticcio idioma tra le due istanze, squarciano il tutto alla stregua d’ansimanti e apprezzabili bolle vaporose, minute epochè cui non avrebbe guastato maggior quadratura nella cernita. Rocco stesso par quasi ingoiato dal pozzo d’una storia che, alla fine, val meno del personaggio-sorgente, potenza-presenza che precede e surclassa, complice una recitazione terrosa e strappata, l’atto narrativo.
Inevitabile che, alla fine, lo storto, in quanto fool, veda la realtà, nudità regale o crudeltà bellica che sia: le spiraliche peripezie ce lo riconsegnano come l’avevamo trovato, mutande e canotta, a diluir in un riso solo in apparenza disteso l’orrore poc’anzi evocato, nella soluzione (e il termine parrebbe doppiamente esatto) più congeniale, ancorché più semplice (l’improvvisazione smargiassa e sfacciata), d’un lavoro che, pur consolidato negli anni, sembrerebbe conservare le carsiche tracce, non negative né positive, dell’occasionalità.