Due sedie e una chitarra. Il teatro può (anche) farsi così, nella semplicità più disarmata e disarmante. Un attore e qualcosa, non necessariamente una storia, da far accadere, ad accendere interesse, rabbia o curiosità nello spettatore, interlocutore amato/odiato, eppur necessario affinché il teatro si dia. Talvolta la fiamma s’appicca, tal’altra no: per parte nostra, tendiamo ad apprezzar comunque chi ci provi davvero, accollandosi i rischi del caso.
Assai singolare l’edizione 18 di Collinarea: tema L’urgenza, ispirato alle ristrettezze per l’azzeramento del cospicuo contributo del Teatro della Toscana (intempestivamente comunicato a febbraio) che ha costretto gli organizzatori alla scomoda posizione di chiedere agli artisti di partecipare in forma gratuita, ottenendo riscontri anche generosi, ma certo non risolutivi in una prospettiva di lungo respiro. Naturale conseguenza, il far di necessità virtù: ed ecco la versione radio edit dei Giganti di Roberto Latini [con relativo sguardazzo; qui la recensione del lavoro quasi originale], Il generale di Roberto Aldrovandi (regia di Ciro Masella, anche protagonista d’un lavoro ben oltre il livello dichiarato di “primo studio”) e il monologo Maria Assunta Lo Carmine, di Paola Francesca Iozzi accompagnata alla chitarra da Savino Ventur.
Oggetti disparatissimi, il che sarebbe pure un pregio, se su tutti non gravasse il pesante macigno di un’urgenza distante da quella efficace cui alludeva Artaud, e non, invece, il dover andar a nozze coi fichi secchi. Il punto è che la colpa, se così si può dire, non può essere (sempre) dei fichi.
Iozzi arriva in scena, truccata di punto.
Reca una borsetta, rossa come il vestito indossato sotto un pullover bianco. Poggia la borsa. Si siede. Parla. Da signora campana, l’affettazione popolare di misurato trattenimento, quel garbo colloquiale che rimanda costantemente a un oltre, un au de la che è sostanza comica, fatta d’ironia riversata sul quotidiano, una vita di lavoro e tv (Maria Assunta, il personaggio tratteggiato, sogna Affari tuoi, il quiz televisivo “dei pacchi”).
La chitarra di Ventur, assiso lì accanto, sottolinea i passaggi, alternando richiami etnici a ritmiche bluesy, talvolta guadagnando il primo piano per poi fondersi repentino col dettato verbale. Presenza metafisica, muta e sonante, a scandire il tempo del racconto.
È il volto dell’attrice a parlare, nelle sue scolpiture sfuggenti, nei minuti mutamenti espressivi. Parla, quanto e pure più di lei: si svolge lì il miglior tratto di spettacolo, il cui cuore si vorrebbe sedimentato altrove (come dichiarato), nel legame leggero ma tenace tra chiacchiera quotidiana e questione sociale, con l’interesse economico pronto a barattare salute con profitto, causa le trivellazioni petrolifere in terra d’Irpinia. Meccanismo noto: il comico mascheramento del tragico, o del serio. Affinché il gioco funzioni è però necessaria una calibratura assai più puntuale, una cattiveria, anzi crudeltà, che sappia imprimersi più dolorosamente, con urgenza, appunto, nelle carni dello spettatore, rilassate dall’equivocabile buonumore. Qualcosa che sembra smarrirsi, invece, nell’eloquio, a tratti pure brillante, dell’apprezzabile signora Lo Carmine: strappa sorrisi, ma non lacrime, titilla l’indignazione, ma con eccessiva delicatezza, troppo garbo. Lo stesso col quale raccoglie la borsetta rossa, assieme agli applausi della bendisposta platea d’un festival che meriterebbe di sopravvivere senza elemosine, con dignità.