Entra dal fondo. Buio. Solca le scale dello Spazio Genet, tra i respiri accaldati del pubblico reduce da altri allestimenti. Piccola. Nessuno stupore. Ha una farfalla di cartone da attaccare, bestia macellata, al pendaglio che cala dall’alto, a centro palco. Lolita, donna bambina, cucciola vampira, (s)vampita proiezione libidica, feticcio e cuore dello spettacolo di Babilonia Teatri, compagnia terribile e teppista fautrice d’un teatro rabbioso, iperrealistico. T-shirt, jeans corti. È sola: non ci sono Valeria Raimondi ed Enrico Castellani a proteggerla. In pasto al pubblico. Impasto. L’inerte proiezione d’un malfermo referto, alle spalle, tra ospedaliero e poliziesco: undici anni, esami clinici, l’ipotesi più prevedibile. E peggiore.
S’inerpica, sopra la scena men che essenziale, sino a un praticabile in alto. Impugna un microfono. Parla. Il silenzio pneumatico è ora sfaldato da una testualità punk rabelaisiana. Accusa: noi, chi la osserva, il mondo. Rinfaccia la disperazione, la giovinezza, l’orgoglio. Dice di sé, per sé. Denuncia e manifesto, rivendicazione e difesa, dolore e sputo. Il testo risponde ai criteri d’accumulo e scarto, sfida e strafottenza, di altri lavori del gruppo, nel costante campionamento d’orrori odierni. Tra le pletoriche miserie passate prossime venture, non manca l’allusione sessuale, ora nella forma più insidiosa e obiettivamente interessante, quella che tanto nocque (tutto è relativo) a Gabriel Mantzaneff al tempo (a.D. 1974) di I minori di sedici anni.
Ora scende e danza marziale su note pop. Burattino di carne in un gioco che le sfugge. O forse no. Si dà, negandosi. Si nega, offrendosi. Smette gli abiti da preadolescente malata terminale di contemporaneità, violata dai media anziché dal lupo della favola.
Ora ha una candida veste e seni posticci. Li taglia. Sgorga un rosso vermiglio, tracimazione emorragica a macchiarla ovunque, stupro simbolico d’un abuso senza fine né requie. Ancora parole proiettate sullo sfondo: tra dieci anni, il suicidio.
La farfalla di carta discende. Troppo tardi.
Applausi timidi, atterriti, perplessi. Certo per Olga Bercini, diligente bambina ancora sporca di rosso. Razza di chi rimane a terra, stomaco foderato di ghisa e prosciutto, riflettiamo sul bello, sul dubbio e se, oltre il giochino sangue/sesso, vi sia altro. E non, ecco il sospetto, l’inesausto puntare al ribasso simulando il rialzo, sfoggiando coraggio dove coraggio non v’è, a ingaggiar un nascondino con gli oltraggi del contemporaneo. Il pubblico giovane non rammenta i De Sade di Vasilicò, le inusitate cantine, il sangue di chi l’avanguardia la fece, sul serio e con rischio. O Nabokov: non lo citiamo noi, ma il titolo.
Il pubblico esperto (non noi, bastardi pure all’anagrafe) bada altrove, elargendo elogi ché questo passa il convento. Frati non siamo, però, a nessuno. Al limite, sdoppiati come i due carmelibene di Nostra Signora dei Turchi che ora tutti, fuori tempo massimo, idolatrano: da morto non fa più male (né Bene) ad alcuno. Non resta che registrar uno strabismo (nostro): ci sembra moralistico, inessenziale e anche un filo insultante scambiar per oltraggioso quel che ci appare semplicistico, mai eccessivo (ad averne d’eccessi!), al limite del pigro.
O forse no.
E va bene: evviva il punk pastorizzato di Babilonia Teatri. Ci sia però concesso, a bassa voce, ricordare che dalla truffa (geniale) di Malcom McLaren son trascorsi decenni.
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Vai allo Sdottorazzo.