Ad aprire il cartellone di Affari nostri, rassegna autunnale di Spam! Rete per le Arti Contemporanee a Porcari, è Claudio Morganti, uno dei più interessanti uomini di teatro italiani, di cui ricordiamo con piacere il lungo lavoro su Woyzeck di Georg Büchner (una serie di studi, culminati con Ombre-Wozzeck, inverno 2012), indimenticabile rilettura di uno dei più grandi testi della drammaturgia europea, nonché il beffardo e puntuto Serissimo metodo Morg’hantieff per attori, teatranti e spettatori (Roma, Edizioni dell’Asino, 2011), agile volumetto di riflessione sul mondo e le pratiche della scena. Adesso è il turno di La vita ha un dente d’oro, allestimento di cui Morganti cura la regia, demandando a di metter faccia e corpo sull’elaborazione drammaturgica di Rita Frongia.
Un tavolino di legno, due uomini di fronte, uno a destra, l’altro a sinistra: potremmo essere in un bar, già che al centro del piano campeggia una bottiglia sovrastata da un bicchiere. Giocano a carte o, almeno, sembra: in realtà, le mescolano, scimmiottando movenze da consumati biscazzieri in un paradossale crescendo buffonesco. A sinistra Stetur, improbabile e ieratico, fragile e contratto, avvolto da maglione e sciarpa di lana: naso prominente, fasciatura al cranio, ha tratti eduardiani, in certe sospensioni, quasi daAugusto, la “vittima” nelle coppie di pagliacci. Pennacchia, calvo, in rosso, scattante e assertivo clown bianco, è lui a menar le danze: sposta il mazzo, rotea bicchiere e bottiglia, inizia a parlare con accento meridionale, per una progressione che strappa sorrisi a un pubblico ancora incerto.
La luce è semplice, quasi naturalistica, in evidente (e ricercato) contrasto col disegno più propriamente teatrale: siamo nei dintorni dell’Assurdo, e gli slittamenti che, via via, i due imprimono alla (non) azione privano, con maliziosa puntualità, lo spettatore d’appigli narrativi, ganci che non riguardino solo ed esclusivamente il gioco, ivi compreso quello circa il “cane che non c’è”, a pochi passi dal tavolo. Tutto sull’attore, sugli attori: e ve n’è ben donde, dato che sia Stetur sia Pennacchia offrono una performance davvero ammirevole quanto a dinamica, tenuta ed efficacia rispetto al progetto. Non si staccano mai da tavolo e sedie, eppure la scena si apre, si contrae, respira animata e pulsante. Si mescolano lingue e accenti (oltre al meridionale, lo slavo, l’italiano), cadenze e riferimenti (dallo strascicato tipico degli ubriachi alla declamazione scultorea della grande poesia, quasi mascherando Eliot a Rimbaud), per un insistito e continuo depistaggio del pubblico, intrappolato in quel niente che è il teatro morgantiano, la sua beffarda messa in crisi dei parametri di verità e menzogna, realtà e finzione. Del resto, La vita ha un dente d’oro, ce lo dice lo stesso Morganti nelle note di regia, è un detto bulgaro che allude a come ogni cosa presenti un che d’artificioso, di falso, un dente d’oro, appunto.
Non manca una certa furberia, con strizzate d’occhio a chi mastica teatro (la sequenza circa il come se è ineluttabile questione posta non appena ci si cimenti col mestiere d’attore) e, la totale sottrazione d’appigli offerti al gentile pubblico può essere, sì, lucido disegno del regista (che sogghigna a due metri da noi, seduto su una panca), ma, al contempo, uno dei limiti, in termini di coraggio, del lavoro in sé. Ché sottrarsi a una drammaturgia forte può certo leggersi come arditezza in direzione del teatro contrapposto allo spettacolo (punto irrinunciabile dell’acuta riflessione di Morganti), ma anche pratica respingente, non priva d’una sua paradossale comodità, per chi s’approcci alla visione senza aver di forza tutti gli strumenti per decriptare: ovvio che non possiamo noi, in tre come in mille righe, sciogliere il dilemma o dettar la linea (siamo scribacchini, peraltro evocati direttamente dai due in scena!); ci basta, e ve n’è d’avanzo, porre il problema, senza illuderci di risolverlo. Certo, la chiusura quasi grandattoriale è potente: Pennacchia muta registro, chiosa e, in effetti, avvicina il pubblico, in una calcolata e davvero toccante frattura della quarta parete. La luce sfuma, i volti si fanno tetri, il buio inghiotte, e inghiottirà, tutto. Sino al rumore devastante di una chitarra elettrica, apocalisse che tracima nel nulla. Sino al silenzio che prelude all’applauso del pubblico. Alla fin fine, un altro nulla.
(Recensione, in parte rielaborata, pubblicata su La Gazzetta di Lucca il 16 novembre 2014)