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Noi, tra le pieghe degli “Io” di Rezza e Mastrella
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Di solito si pensa che il teatro sia quella cosa in cui un signore parla con voce impostata alla Nando Gazzolo, facendo assopire il pubblico con testi di autori storicizzati e, bene o male, affrontati distrattamente a scuola. Antonio Rezza rappresenta esattamente il contrario di questa idea: i suoi dirompenti lavori sono fatti di corporeità e magici segni che sanno comunicare molto più dell’ultima app da scaricare sul nostro smartphone.
Come in questo dissacrante Io, riportato in scena in quel di Arezzo all’interno di un piccolo nuovo Festival dello Spettatore, che introduce la proiezione di Milano via Padova, film di cui l’attore, unitamente a Flavia Mastrella, è autore e regista. La pellicola, afferma lui stesso alla fine dell’applauditissimo spettacolo, è una sorta di viaggio sul razzismo che ci permea, di cui non ci rendiamo neppure conto, l’intolleranza filmata nelle vie di Milano e che, in qualche modo, fa il paio con quell’Io scorretto e impronunciabile che a tratti sbuca in scena durante lo spettacolo, armato di una sorta di aureola gialla che tanto ricorda una sega circolare.
Da una parte, incornicia i pensieri più immondi su tutto quello che è altro da sé, dall’altra, “taglia”, quell’io, i teli/convenzioni che lo bardano via via. Ogni apparizione segna non tanto una parentesi, quanto la lenta e inattesa affermazione di un soggetto pensante e provocatorio. Considerazioni che a tratti riconosciamo in noi, ma che spesso rimuoviamo per mascherarci in dinamiche comportamentali perfettamente materializzate dal riuscitissimo apparato scenico, ideato da Flavia Mastrella, fatto di teli colorati e ritagliati, da cui Rezza si fionda in scena con straordinari monologhi declinati nelle varie frammentate parti del nostro io post freudiano. Tutti noi siamo lacerati da pensieri e azioni che “ufficialmente” non ci rappresentano, ma che sono la nostra rozza anima nascosta.
I semplici, efficacissimi teli lacerati si animano mediante le parossistiche azioni del performer, il suo viso espressivo, le sue mani irrefrenabili, i fasci di nervi del suo corpo.
Ed ecco un esilarante monologo/dialogo di una coppia che vorrebbe un figlio somigliante ai genitori, ma che, allo contempo, non andasse oltre il loro io.
Rezza sputa palle di carta, affronta fisicamente il pubblico, citando in qualche modo Carmelo Bene, interrogandoci sulla specifica irrituale scelta di correttezza di fondo che egli stesso attua su noi spettatori. Anche piegare lenzuola diventa gesto ipnotico e straniante, come la doccia nella capsula semitrasparente in cui tutti noi riconosciamo la nostra solitudine.
“Non è che se non capite, non finisce!” ci urla addosso, quando rimaniamo senza parole davanti ai suoi sketch, conducendoci magistralmente alla risata liberatoria che percorre tutta la serata e da cui usciamo piacevolmente frullati di emozioni e pensieri. Tutto questo, dopo aver provato a rispondere a quesiti destabilizzanti: “Io se vedo un uomo felice, mi avvicino e gli chiedo subito: sei sicuro?” Oppure “Perché tu stai qui a fumarti la vita e non ti accorgi che la vita è già finita?”
Considerazioni profonde, brucianti, che dilagano dagli interstizi delle battute di tutti i suoi spettacoli, travestite da un gioco teatrale tangente il clownesco che ci perfora l’anima e ci lascia uscire fradici di emozioni vere, e non mediate dai livellanti social che tanto vanno di moda oggi.
[sullo stesso spettacolo, leggi lo sguardazzo di Sara Casini]