Se si ha la fortuna (o la sfortuna) di studiare Guido Gozzano sui banchi di scuola, qualsiasi spiegazione in merito al poeta torinese inizierà parlando della sua ironia. Non che sia sbagliato, ma quel tratto viene eretto a chiave di lettura quasi esclusiva della sua opera: il rapporto dell’Avvocato (alter-ego dell’autore) con gli altri personaggi è sfumato e all’indubbio cinismo si legano la compassione e l’invidia per i puri di cuore.
Lorena Senestro rompe tale visione riduttiva portando in scena Felicita, il personaggio gozzaniano più noto: colpisce subito l’aderenza della donna all’uomo che l’ha abbandonata. Non ne ha saputa cogliere l’ironia – come avrebbe potuto? – e ha creduto profondamente a tutto quello che l’Avvocato le ha detto, al punto da parlare (quasi) solo con le parole di poeta.
Il lavoro sul testo, della stessa Senestro, è una meticolosa opera di cucitura e adattamento di citazioni gozzaniane: non un gioco postmoderno con lo spettatore a riconoscere la fonte, bensì l’orditura di una ragnatela di significati che unisce, in modo misterioso, la conferma e la negazione della poetica dell’autore. La protagonista cita La signorina Felicita ovvero la Felicità, poemetto che dà il titolo allo spettacolo, passando dal tu all’io: «Taglio le camicie per mio padre. Ho fatto la seconda classe, m’han detto che la Terra è tonda, ma io non credo». Il monologo sembra suggerire che molte delle parole usate da Gozzano fossero quelle rivoltegli da Felicita, come le descrizioni delle «fiabe defunte delle sovrapporte». La ragazza è più maliziosa e consapevole di come la immaginiamo: sa che andrà ad affollare lo «stuolo delle deluse». In uno sfogo, ci rivela che il suo vivere semplice era una montatura per piacere all’Avvocato. Non sa che anche l’uomo stava simulando e, infatti, tra i versi ripresi non c’è (non potrebbe esserci) quello finale: «Ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico… Quello che fingo d’essere e non sono!».
L’attrice/autrice è accompagnata da Andrea Gattico, al pianoforte: peculiare figura baffuta che, a volte, pare presenza estranea e, a volte, interagisce con la protagonista nei panni del padre. Le musiche originali ricreano l’atmosfera di inizio Novecento o fanno da sottofondo alla desolazione, con alcune trovate interessanti: prima tra tutte, la partita a carte, evocata con una cronaca del gioco su una pulsazione molto ritmica. La scenografia, essenziale, presenta sulla destra un pianoforte e, sulla sinistra, un tavolinetto da tè ingigantito, più alto dell’attrice. Pendono dall’alto tre coppie di cornici ovali secentiste, ad accennare il salotto fatto di «buone cose di pessimo gusto». Pochi oggetti di scena, tra cui un’alta cadrega (sedia in vari dialetti settentrionali), con cui il regista Massimo Betti Merlin sfrutta lo spazio in verticale. Il piccolo palco è conchiuso da tre pannelli verdi su cui sono disegnate delle farfalle in volo, in omaggio alla passione di Gozzano per il mondo entomologico.
Lorena Senestro racconta una Felicita in bilico tra la facciata serena, coerente con i doveri borghesi (il “cicaleggiare” in salotto), e la disperazione che emerge ogni tanto, portandola a momenti convulsi, in cui la norma sociale va in frantumi come le tazzine da tè che cadono a terra dal vassoio tormentato. Questo omaggio a Guido Gozzano, nel centenario della morte, è un vero atto d’amore nei confronti del poeta e dei suoi personaggi: una visione originale e sincera che, inevitabilmente, può cambiare il modo di leggere La signorina Felicita.