La stagione di prosa del Verdi di Pisa si apre con la traslazione nello spazio “tradizionale” di uno spettacolo della Compagnia della Fortezza. Quest’anno è la volta di Dopo la tempesta, spettacolo ispirato a William Shakespeare nel 400° anniversario della morte: la creazione di Armando Punzo si propone come un’opera in più del Bardo, che prende vita, appunto, dopo aver scritto l’ultimo dramma, La tempesta. Più che il testo, è l’atmosfera ad essere scespiriana: i detenuti-attori incarnano, più o meno riconoscibilmente, alcuni personaggi. Da Otello a Riccardo III, da Iago a Calibano, da Giulio Cesare a Desdemona: una galleria di topoi, parole, immagini e visioni.
Punzo è Shakespeare, tormentato, assediato dai fantasmi dei suoi personaggi: lo guardano con cattiveria, lo accerchiano, lo minacciano uscendo da un libro o sventolando lunghi coltelli. Riuscirà a essere in armonia con queste presenze solo quando, avvicinandosi viso a viso, darà loro voce attraverso il suo microfono. Il palcoscenico e la platea sono costantemente infestati da questi ectoplasmi: anche i personaggi inattivi continuano ad aggirarsi, dando un senso di oppressione. L’atmosfera è minacciosa, post-apocalittica, ma sempre dominata da una certa quietezza, un tempo disteso memore, forse, della vita carceraria condotta da gran parte degli interpreti.
La scenografia è più essenziale rispetto alla versione di Volterra (doppiamente già recensita: qui e qui): poche croci pendono dalla graticcia, alcune scale a pioli richiamano l’immagine della Deposizione. Sul palcoscenico un letto, uno scrittoio e pochi altri elementi. Domina la dicotomia bianco/nero: molti personaggi vestono panni candidi, altri, Punzo e Desdemona compresi, hanno costumi total black, in un’opposizione che, avvicinandosi al finale, diventa sempre più evidente. C’è una forte attrazione per i simboli e per il loro significato universale: d’altronde, la Compagnia della Fortezza lavora sempre ri-amalgamando un patrimonio di conoscenza comune, di cui anche Shakespeare fa parte. Si procede per immagini potenti, tra brindisi falliti e contrasti efferati. Il sogno shakespeariano è accompagnato da Andrea Salvadori che, in scena, esegue le proprie musiche originali che sembrano variazioni sul tema dell’ostinazione: dalla singola nota ribattuta a melodie più articolare che si avvitano su sé stesse all’infinito.
Lo spettacolo muta sensibilmente, come prevedibile, al variare dello spazio: se, nel carcere, il pubblico era confinato su due lati della scena senza interazione con la performance, in teatro le cose cambiano. All’ingresso, gli spettatori trovano Punzo, immobile, sulla soglia del sipario socchiuso: in attesa, mentre in carcere compariva già indaffarato a soppesare stoviglie e monili prima di lasciarli cadere rumorosamente. Gli attori cercano più spesso il contatto visivo con la platea: scendono dal palcoscenico, entrano ed escono da fondo sala. Se il superamento della quarta parete è, di per sé, un’infrazione, è assai più forte il senso di rottura quando a praticarla sono detenuti-attori. Come già notato in occasione di Santo Genet, anche le luci vengono utilizzate per rendere più fluido il confine scena/pubblico: in questo caso, però, tale sconfinamento sembra dimostrare un maggiore interesse per lo spettatore rispetto alla versione “originale”. Un cambio di passo, forse, frutto dei diversi incontri di avvicinamento in cui il tema del rapporto con il pubblico è stato affrontato a più riprese.
Numeroso il pubblico accorso in sala per applaudire la lodevole apertura di una stagione ben equilibrata tra rischio e sicurezza.