«E adesso in città tutti domandano: di dove ha avuto Rotschild un così buon violino? L’ha comprato o l’ha rubato; o forse gli è stato dato in pegno? Egli già da un pezzo ha lasciato il flauto e suona adesso soltanto il violino. Di sotto al suo archetto vengono fuori gli stessi suoni lamentevoli che una volta dava il suo flauto, ma quando egli si sforza di ripetere quel che sonava Jakov seduto sulla soglia, gli vien fuori qualcosa di così triste che chi ascolta si mette a piangere, ed egli stesso verso la fine torce gli occhi e dice: “Vaach!”. E questa nuova canzone piace tanto in città che Rotschild è continuamente invitato da mercanti e da impiegati che gliela fanno sonare fino a dieci volte».
Sono le ultime righe del breve racconto di Anton Čechov da cui Andrea Kaemmerle ha tratto il suo Balla!, nuovo progetto targato Guascone Teatro e dedicato, più o meno esplicitamente, alla “piccola grande letteratura d’autore”. Il racconto in questione si intitola Il violino di Rotschild ed è, come l’intera produzione di Čechov, scritto con inchiostro asciuttissimo e penetrante sensibilità. Le righe sopra riportate sono anche le sole che Kaemmerle decide di leggere parola per parola, a luce spenta, prima di ricevere gli applausi. Dopo aver convertito invece l’originaria narrazione in terza persona in una sorta di sproloquio in prima persona, a una sola voce.
Se lo Jakov del racconto è un tipico personaggio cechoviano, obbligato a misurarsi con la propria penosa esistenza, quello disegnato da Kaemmerle prende caratteri clowneschi, in cui il grottesco si impasta con il malinconico. Non poteva essere altrimenti, considerata l’attitudine del performer fiorentino (LSDA ne ha scritto talmente tanto che se non lo conoscete non vi meritate alcunché), la cui scorza attoriale mai si riduce a una sola faccia, un solo temperamento, un solo registro espressivo. Sicché la “volgarità” di certe battute fabbricate da Kaemmerle non è solo un modo per accaparrarsi una facile risata e stemperare la tristezza della vicenda. Piuttosto si avverte la necessità di entrare nei solchi del racconto, rovistare nelle stanze della sventura, dichiarare ad alta voce che ogni uomo è così umano da essere ridicolo.
Di più: l’impasto era forse l’unico modo di rendere scenicamente “familiare” la figura di un costruttore di bare venale quanto spiantato, costretto ad arrotondare i magri proventi della sua attività suonando il violino durante le feste di paese. Nella vecchia moglie Marfa (in scena raffigurata da un fantoccio su una sedia a dondolo, opera di Federico Biancalani) l’unica persona disposta ad ascoltare le sue invettive (quasi ipnotico il refrain “chi me li ridà questi soldi, chi me li ridà?”). Morta la donna, non c’è per Jakov altra possibilità se non attendere la propria stessa fine, e decidere chi merita l’unico lascito, il violino: il vecchio amico/nemico, l’ebreo Rotschild, che con le sembianze di Roberto Cecchetti ha accompagnato senza parole l’intero spettacolo e nelle cui note si è specchiata la meschinità di Jakov.