Oggi vi deliziamo con qualche ulteriore considerazione su uno spettacolo di cui già abbiamo parlato (vedete qui): Kansas City, vita immaginaria di Luciano Bianciardi, per la regia di Claudio Riggio.
Rispetto al precedente allestimento, questo ci dicono presentarsi più completo, pur nella frammentarietà. Se la volta scorsa era il teatro di Valdottavo a ospitare questa piccola ma interessante realtà scenica, adesso ci troviamo in una sala di dimensioni ridotte, all’interno della Città del Teatro di Cascina fresca di nuovo corso; in entrambi i casi, l’atmosfera è raccolta, il che sembra facilitare la fruizione dello spettacolo. Scena buia, sulla sinistra si posiziona l’ensemble di musicisti (sax alto, due clarinetti, trombone, tuba, chitarra e percussioni), sulla destra, unico attore, Antonio Calandrino. La luce taglia la scena, spigolosa, lasciando sempre parte del palco nella penombra. Lo spettacolo è la descrizione di una propria impossibile elaborazione: come i luoghi reali nell’immaginario di Bianciardi si trasformano, così il canovaccio nella propria realizzazione non può che frammentarsi, sfiorando l’incomprensibile.
L’attore (Calandrino) prende voce – salvo perderla a causa del malfunzionamento del microfono, problema presto risolto – e narra una storia confusa. In veste di giornalista, tenta il racconto di una biografia che, presto, diviene tanto incorporea da poter essere interpretata dallo spettatore in modo assolutamente personale. Talvolta la narrazione, nella propria faticosa e consapevole irregolarità, si approssima a un autentico flusso di coscienza intarsiato di citazioni, immagini e ricordi.
La musica, asse principale e non ignorabile della performance, accompagna le parole, incastrandovisi come a riempire, forse persino a completare le immagini appena evocate dalla recitazione. L’attore rimane pressoché immobile, ora abbandonato su una sedia di legno, ora in piedi, la voce grave; e parla lentamente, disegnando affreschi spesso sfocati, difficili da costruire nella faticosa distensione dei periodi.
Il personaggio del giornalista, talvolta, sembra coincidere con la proiezione teatrale dello stesso Bianciardi: nei momenti di sospensione musicale, beve e fuma il sigaro, lasciandone aleggiare sulla platea l’odore dolciastro. Quando la pausa termina, alza un braccio e accende la lampadina che si trova sopra la sua testa, per tornare a raccontare.
I tempi della narrazione, suddivisa in otto quadri, sono scanditi, oltreché dalla musica, dall’opposizione tra luce e buio, impreziosite da proiezioni che dipingono il fondale della scena. Ogni quadro è rappresentato da un luogo, perché, ci dicono,“un uomo è i luoghi in cui è stato amato e amare è farsi portare altrove, in un altro luogo”: e ogni nuova destinazione viene rappresentata dalle immagini proiettate, cui l’attore talvolta si avvicina sino a dare l’impressione di affondarvi.
Di fronte a una performance di questo tipo, lo spettatore può individuare un personale filo rosso che leghi parole e musica o, come Arlecchino preferisce fare, abbandonarsi all’esperienza estetica, cogliendone le suggestioni, senza la pretesa di spiegare alcunché.