«È l’alba, tra poco spunta il sole. È già maggio, i ciliegi sono in fiore, ma il giardino è freddo, coperto di brina. Le finestre sono chiuse». Così recita la prima didascalia di Il giardino dei ciliegi, che prende vita sul palco del Teatro Carignano di Torino: dalla platea possiamo quasi percepire l’odore di polvere proveniente dall’armadio sventrato e malamente appoggiato a un vecchio scrittoio ricolmo di libri; una poltrona, altro oggetto in scena, partecipa all’atmosfera cupa e sospesa. Il “silenzio” è infranto solo da una enorme spaccatura nel fondale: mucchi di macerie, al di là della camera dei bambini, a ricordarci che è stata (e sarà) testimone di storie di vite in progressivo diroccamento.
«Il treno è arrivato». Fausto Russo Alesi, nei panni di Lopachin, figlio di schiavi divenuto ricco mercante, rompe l’attesa e, in completo nero e scarpe gialle, attende il ritorno della padrona di casa, a Parigi da cinque anni. Ora si siede sulla poltrona, ora di scatto corre sul bordo del palcoscenico, ora scruta la platea in cerca del treno in arrivo, invitando il pubblico a far parte, anch’esso, della narrazione.
L’ultima opera di Anton Čechov riacquista, grazie alla lettura di Valter Malosti, il carattere di commedia per molto tempo eclissato da una tradizione iniziata dal Teatro d’Arte di Stanislavskij. Il regista, mantenendosi fedele all’idea originale (in senso sia testuale sia scenografico), fa della doppia natura di quest’opera il suo punto di forza, portandola al limite: eroi ed eroine tragici – ma senza tragedia – muovendosi sul confine del comico, tra disperazione e beatitudine, ridono, ma sempre con le lacrime agli occhi.
Il nucleo della vicenda è semplice: bisogna abbattere il giardino dei ciliegi e vendere, anzi, lottizzare la proprietà per pagare i debiti. Questa la proposta di Lopachin, alla quale Ljuba, aristocratica russa interpretata con forza da Elena Bucci, non intende rassegnarsi. Questo il filo conduttore intorno al quale si intrecciano, incontrano e scontrano i frammenti delle storie dei singoli caratteri, della famiglia Ranevskaja, ma anche della società russa portata in scena nell’ultimo atto, quando calerà, imponente sul fondo, un imponente busto di Lenin.
Il ritmo della recita è incalzante, le scene si susseguono equilibrate, senza pesantezze o eccessive dilatazioni: monologhi ricchi di pathos si alternano a brevi momenti improntati a riso e leggerezza. Una qualche amara ironia nel portare in scena il lato comico dei drammi della vita passa anche attraverso i singoli: dai tentativi di Natalino Balasso, nei panni di Andreevič, di far discorsi “seri” (prontamente frenati dalla figlia), sino all’evanescente figura interpretata da Eva Robin’s, che fluttua da una parte all’altra del palco facendo giochi di prestigio. Un cast eterogeneo, amalgamato alla perfezione, per uno spettacolo che funziona tanto nell’insieme quanto nelle singole parti.
Quando è lasciato solo sulla scena, Piero Nuti sveste i panni dell’anziano servitore Firs e torna uomo, attore e, più di tutto, narratore. A lui Malosti affida il compito di porgere, recitando, le didascalie: come un architetto, crea con gesti e parole le scene, ei legami fra di esse.
La casa, infine, sarà chiusa, venduta a Lopachin che ne trarrà residenze per turisti, vuota e fredda dopo la partenza della famiglia; rimane solo Firs che, dimenticato, si sdraia sul pavimento quasi per diventare egli stesso parte del luogo di cui è stato a lungo custode.