Per chi bazzichi minimamente l’area fiorentina, il termine “Isolotto” non rappresenta un mero vezzeggiativo, implicante peraltro un cambio di genere, della parola “isola”: col nome di Isolotto si indica, infatti, un importante lacerto di suburbia gigliata, il quartiere popolare progettato nel 1950 e realizzato negli anni successivi a suon di quelle case Fanfani (quelle del piano INA-Casa, 1949) che si sarebbero, di lì a poco, diffuse in tutta la Penisola. Inutile dire che, leggendo il titolo in cartellone al Metastasio, il pensiero è corso a quel rione denso di storia e storie, snodo per un Novecento d’urbanizzazione affacciata là, sull’altrove d’una campagna destinata a divenire meta d’élite per nuovi ricchi o terra rinnegata per chi sognava una qualche speranza d’ascesa sociale. Ed è lì, da lì che, forse, dovremmo partire per riavvolgere i fili sapientemente intrecciati da Virgilio Sieni in occasione del suo ultimo lavoro coincidente con il ritorno alla danza solitaria, quindici anni dopo Solo Goldberg.
Le note di regia, spesso fondamentali per le performance contemporanee, ci parlano d’altro: d’un corpo da riscoprire, librare e liberare, una ricerca a proposito delle fasi evolutive dell’esistenza, una materia fisica alle prese con i principi della gravità e che, grazie alla danza intesa come inventiva costruzione spaziale, si pone al perseguimento d’un principio unitario. L’isolotto, in questo senso, è la monade che compone l’arcipelago del nostro corpo, così come isolotti sono i singoli sintagmi che suddividono una performance densissima e ineffabile, ipnotica e abbacinante.
La scena è nuda, dominata da una postazione ospitante un chitarrista e un terminale: al tavolo, il norvegese Eivind Aarset imbraccia con nonchalance la sei corde traendone tappeti sonori scuri e notturni, larghi e liquidi. L’elaborazione digitale conferisce inusitata potenza a una partitura che alterna sequenze ritmiche a dilatazioni ambientali, come ad accogliere quello che il danzatore, a pochi passi di distanza, metterà in pratica. Piedi nudi, Sieni dà vita a una serie di movimenti in senso antiorario, d’una plasiticità ieratica e progressivamente più ardita: affiorano immagini d’un corpo spinto oltre la mera naturalità, e il susseguirsi dei “numeri” (la performance, leggeremo poi, è composta da undici danze, come stazioni d’una personalissima Via Crucis: proveremo a spiegare perché) evidenzia una tensione crescente.
Ora il corpo è raccolto in posture fetali, ora si barcamena a mo’ di marionetta, avvolto dai suoni d’una partitura sempre più onirica. E quando sembra d’aver colto una minima tendenza alla ripetizione, come un periodo nella frequenza iterata, ecco il crescendo imperioso, materico del volume: il teatro vibra di suono, si ha come l’impressione che tutto possa crollare, che quanto visto sino a quel momento altro non fosse che il preludio a un’apocalisse elettrica, desiderando che finisca mai. Ultime due danze e Sieni s’infila dentro una vaporosa veste bianca, calzando poi una pulcinellesca maschera sul volto: muoverà così gli ultimi passi, abbandonando il moto circolare, quasi tribale, intorno al compagno di scena, per guadagnare la platea, danzando tra le poltroncine, non prima d’aver evocato una crocifissione dai tratti inquietanti. È goffo o almeno così sembra, adesso, quasi incapace di ripetere, tra noi umani, le bellezze lasciate intravedere dal palco: e pensiamo, a mo’ di personalissima e fragile ipotesi, all’albatros di Baudelaire, bestia tanto mirabile nell’atto del volo, quanto irrisa una volta giunta a terra. Non resta che applaudire, e volentieri eseguiamo.