La platea è affollata e, quando il pubblico prende posto, sulla scena aperta Ivanov (Filippo Dini, attore e regista) legge il suo libro. L’inizio dello spettacolo viene annunciato perché la luce illumina ancora lo spazio teatrale provocando un effetto di straniamento; il buio sopraggiunge progressivamente, così come la narrazione fagocita l’attenzione degli astanti. La facciata di un edificio colonico e lo scorcio di un giardino sembrano riprodurre le indicazioni di Čechov, tutto però è molto concitato, i personaggi sono parte di un vortice di emozioni: Anna (Sara Bertelà) spera sempre che qualcosa possa cambiare e il dottore L’vov (Ivan Zerbinati) esprime tutta la propria rabbia moralista. Il grillo (bordone quasi fastidioso come i sentimenti dei personaggi) e la civetta esprimono l’immobilismo di questo stralcio di mondo. Il realismo scenografico mostra i suoi trucchi e le pareti scorrono claustrofobicamente tra un atto e l’altro per riprodurre i diversi ambienti arricchiti di arredi essenziali che lasciano intravedere un bucolico spazio esterno.
Ivanov attraversa i quatto atti indenne, possiede un’energia rabbiosa che forse è lontana dalla noia angosciosa pensata da Čechov, ma che lo conduce all’epilogo senza permettere a nessuno di perdere il filo del discorso. Lo spaccato di variopinta umanità viene rappresentato con i nove attori della compagnia e, sul finale del primo atto, il regista mostra al pubblico questa sua volontà: il dottore sta per uscire di scena, ma già indossa abiti che lo trasformano nel nuovo personaggio, il servitore di casa Lèbedev. Tutti sono perfettamente connotati e l’esagerazione emozionale compensa l’assenza di eventi significativi, mentre della noia e dell’indifferenza del protagonista si vedono solo le conseguenze su sé stesso e sugli altri. Saša (Valeria Angelozzi) è l’altra donna che ha scelto l’uomo sbagliato convinta di riuscire a cambiarlo o a riportarlo com’era. La sua illusione pervade l’atmosfera e si scontra con tutti i facili moralismi di una visione dell’uomo frutto delle più banali apparenze e deturpata dalla percezione individuale. Proprio come Zinaida (Orietta Notari), angosciata dal suo attaccamento al denaro, o gli altri personaggi simbolo di un mondo deteriorato quanto mai attuale. Il conte Šabel’skij (Nicola Pannelli) che si convince a mano a mano di concludere la sua vita con una “porcheria” legandosi alla ricca giovane Babàkina (Ilaria Falini). Nonostante le apparenze non ci sono buoni o cattivi, ci sono solo uomini.
Il tempo è altro elemento latente, tutto è messo a confronto con un passato glorioso e migliore che ora non c’è più. Tutti erano diversi o, forse, è la memoria a renderli tali? L’illusione li ha portati al punto in cui sono? L’ultimo discorso di Ivanov, prima della morte autoinflitta, parla a noi: «Davanti a te sta un uomo che a trentacinque anni è già esausto, deluso, schiacciato dalle sue insignificanti azioni; arde di vergogna, irride la propria debolezza…», ed esprime una profonda contraddizione tra la consapevolezza dei propri limiti e l’impossibilità a superarli. Cosa resta in fondo? Un atto di forza come gesto di rifiuto a subire qualcosa di ineluttabile o un senso di suprema debolezza che soccombe di fronte alla vita?