Li avevamo lasciati in un appartamento, narcos da pianerottolo per una storia dolce-amara, spietata eppure ottimista, con quella dolcezza dolente che solo intravede chi ha davvero assaporata la disperazione. Li ritroviamo, dopo un anno di meritata tournée (ecco la relativa recensione), avvinghiati al bancone d’un bar, tronco d’albero, scialuppa, dannata àncora di salvezza. Sono i carrozzieri orfici, teppaglia di teatranti caparbiamente impegnata nel proporre solidissimi impianti drammaturgici, un’evidente, maniacale cura dei dialoghi, croce e delizia per una scrittura a unire la fulminante disinvoltura d’un certo cinema cool anglosassone (pensare a Tarantino è sin banale) all’ambizione d’una testualità non esaurita in una pur efficacissima immediatezza.
Sin dalla prima sequenza di Animali da bar occhieggia in scena la settima arte: quel riavvolgimento à rebours che, da un articolatissimo quadro iniziale (un parto non desiderato tra disumane imprecazioni sulla superficie occupante gran parte della scena), riporta tutto a uno stadio precedente, in un sostanziale, massiccio flashback. Pure questo è teatro, nel ricupero in forma tanto parodica quanto rigorosa di sistemi da sempre propri della scena occidentale (Edipo Re, tanto per dire), nell’imprimere alle vicende la spiralica forza d’una necessità inesorabile. Finezze di chi le storie sa raccontarle ed è ben cosciente di come la trama valga poco, o nulla: conta, sempre e comunque, il come, un come fatto di ritmi, movimento, colori, forma, insomma. Pure al di là dei caratteri, intesi in senso convenzionale: i cinque “disperati” (sei, con la voce off di Alessandro Haber, zio incazzoso e lepenianemente misantropo) sono, per lunga parte di recita, personaggi scientemente monodimensionali, quasi funzioni a meglio innescare la forza di quella macchina che è la drammaturgia, il discorso scenico.
Una disillusa barista ucraina fitta-uteri per gravidanze conto terzi (Beatrice Schiros, chirurgica, aguzza, spietata), un topo d’appartamento che deruba approfittando dei funerali (Pier Luigi Pasino, mirabilmente spaesato), un impresario funebre col riportino (Gabriele Di Luca, alle prese con nuove soluzioni d’attore, meno “facili”, più sfumate), un buddista supino ai limiti del masochismo (Massimiliano Setti, lunare e stralunato) e lui, lo scrittore alcolista, cinico e sbruffone, di Paolo Li Volsi, un po’ Marlowe (Philip) un po’ Bukowksi de no’ antri. Cinque rigettati dalla vita: arrabbiati, fumettistici, come questo bar che sembra, ma non è più, un luogo reale, l’epicentro d’umanità che è stato, per molti decenni addietro, nel nostro paese. Un non luogo come (non) lo è, da sempre, il teatro, al pari di altri, non a caso al centro del recente interesse di vari artisti: i circolini ARCI di Goretti (pure qui) o le stazioni degli Omini (pure qui e qua).
Ritmi serrati, dialoghi calibratissimi d’un cinismo sboccato e tagliente (ne riporteremmo stralci, se solo fossimo critici da taccuino, ma non lo siamo) strappano risa copiose: sin troppo “perfetti” per esser veri, ma, in questo caso, la struttura complessiva appare davvero compiuta, anche per quel trucco e quell’umanissima dolcezza finale che, pur presentiti nel corso della recita, risultano davvero ben assestati. Tranquilli, non vi bruciamo niente e qui tacciamo.
Applausi, dunque, per artisti che vanno in scena per il pubblico, che hanno cose da dire, che sono vivi, pure nel ringraziare per il battimani: al termine d’una replica sporcata da qualche idiota nelle file più alte della sala, Di Luca si prende il giusto tempo d’insinuare che, a volte, il problema, è proprio quella gente là, al buio delle poltroncine. Non ha torto.