Non è una composizione per il teatro, non è un’opera: non lo sappiamo neppure noi a cosa abbiamo assistito con Hyperion al Centro Pecci di Prato in questo sabato di novembre. Siamo affezionati del duo Muta Imago, che da anni ormai sperimenta nel panorama teatrale con un occhio di riguardo al culto dell’immagine, e proprio per questo abbiamo diverse aspettative.
Dal libretto di sala si hanno alcune informazioni: si tratta di una lirica di Bruno Maderna legata e ispirata al romanzo di Hölderlin Hyperion (Iperione o l’eremita in Grecia), con una maggiore indagine sul tema della lotta tra individuo e società, tra desiderio e nostalgia. Per chi non avesse letto alcun foglio illustrativo, la sensazione è di spaesamento: sia per chi conosca il genere praticato da Muta Imago sia per chi per la prima volta assista a un lavoro del gruppo.
Al centro della scena si ha un tappeto danza di forma circolare sopra il quale un performer (Jonathan Schatz) attende l’ingresso in sala degli spettatori per iniziare a comporre il perimetro con dei legni; scopriremo in seguito che questi, frantumandosi a terra, sono realizzati in gesso.
Sopra il danzatore vediamo un cerchio su cui verranno proiettate delle immagini e che sarà manovrato e riposizionato a vista da un tecnico. Il performer scrive con un piccolo gesso sul tappeto, segue la circonferenza, dispone oggetti, realizza piccoli movimenti con i piedi che si staccano leggermente da terra per poi spiccare, con una escalation dal ritmo incalzante, veri e propri balzi, e infine infrangersi a terra. Assistiamo alla ricerca di un contatto, di un rapporto tra uomo e natura che si palesa sia nella drammaturgia, le cui parole possono ricordare le descrizioni di Jon Krakauer di Nelle terre estreme, sia nelle immagini riflesse in alto, che raffigurano cieli annuvolati, stormi di uccelli e tronchi di alberi autunnali che resistono a persistenti venti. Si ha una sequenza di azioni che l’artista porta avanti, traendo da ogni insuccesso la forza per rialzarsi e trovare una nuova alternativa.
Accanto a lui in scena tre figure femminili: una flautista, un tecnico e una cantante lirica. La prima (Karyn de Fleyt) realizza la colonna sonora dell’intera opera, composta da sonorità sospese, in un’atmosfera astratta; il tecnico (Maria Elena Fusacchia) manovra come un demiurgo la circonferenza su cui sono proiettate le immagini e che potremmo interpretare come i sogni e le aspirazioni del personaggio; infine, la cantante lirica (Valerie Vervoort) ripercorre i brani di Maderna rielaborati e riarrangiati da Riccardo Fazi.
La sala è disposta a semicerchio, così gli spettatori possono accomodarsi su tre lati della scena, soluzione che si rivelerà poco funzionale, poiché la visione ideale sarà comunque quella frontale. Lo si evince anche dalla collocazione sul “proscenio” del piccolo pannello su cui vengono proiettati i sottotitoli al testo drammaturgico in inglese del performer e ai lieder tedeschi eseguiti dalla cantante.
Per il tipo di visione, per l’utilizzo di un performer, per la cantante lirica in scena e altri piccoli accorgimenti (tappeto danza) ci verrebbe da pensare che la coppia romana sia andata a cena con Romeo Castellucci, talmente forti sono gli echi e i rimandi a quel Schwanengesang D744 (recensito qui) visto nella scorsa stagione sempre nei pressi di Prato.
Uno spettacolo dalle mille sfumature che non convince in pieno lo spettatore, costretto, per comprendere in maniera approfondita le peculiarità della performance, a far uso del libretto di sala. Gli affiliati di Sorace-Fazi, abituati a scene dal grande impatto visivo ed emotivo (si ricordi ad esempio Displace), restano un po’ titubanti come dolcemente cullati in un limbo dalle tonalità soft.