Chiunque dotato d’un minimo di sensibilità, alla lettura di Pinocchio, dopo lo stupore suscitato da quella fantastica macchina della meraviglia che è la prima parte del racconto, non può evitare la sensazione lancinante d’una fitta al cuore, allo stomaco, un dolore inenarrabile e infinito. È violento, atroce, il meccanismo innescato da un autore troppo inferiore al suo personaggio, quel processo di reductio all’ordinario sulla base di viete esigenze piccoloborghesi che vorrebbero il burattino (anzi, marionetta) avviarsi in direzione di un’umanità intesa come acquisizione di carne e ossa contrapposte al miracoloso corpo in legno. La quotidianità organica opposta alla magia. Prima la scuola, poi la banca, verrebbe da dire, a completar la mesta parabola di un’esistenza dabbene, come Dio (oh mio dio) comanda.
I motivi per cui Pinocchio esercita da sempre un’attrazione irresistibile su artisti d’ogni forma è anche questo: il paradosso dell’umano, ben al di là d’un naso estensibile (il dettaglio metonimico assurto a sommo simbolo del personaggio) e, soprattutto, della fiaba a lieto (lieto?) fine. Simone Perinelli non si perde in sguerguenze e, da teatrante, prende di petto, è il caso di dirlo, la questione, col suo Requiem for Pinocchio. Lavoro metamorfico, sin dal titolo, con quell’apposizione anglo-latina eppure musicale: e la natura mutante dell’idea investe in profondo quello che ci pare un allestimento semplice e, al contempo, complesso.
Un tavolo a fondo scena, un’asta e un microfono sulla sinistra. Nulla più. Non servono mirabilie se attore e teatro l’un dell’altro si fanno anagramma (controllate: è così). Pure le luci, calibrate, sono elegantemente semplici. A fare tutto è lui: corpo plastico, robusto e flessuoso, calzoncini chiari, maglietta vermiglia, espressione stralunata, da improbabile peste fiabesca. Gli occhi gli si smarriscono in volto, punteggiando la sequenza di voci e racconti nel mescolar Collodi e spunti pop, la lingua terrosa del nostro miglior romanzo d’Ottocento (con buona pace di Manzoni, Verga e Nievo; su D’Annunzio sopravvoliamo) e coltellate d’italiano contemporaneo, nell’eterno presente d’un racconto metafisico.
Il tutto s’intride di suoni già origliati, voci rubate, multiforme caleidoscopio teatrale dai rimandi infiniti: c’è il Bene dell’indimenticabile registrazione audio, con le sue dissonanze nasali, e il Latini ubuesco, nel timbro reso da un’amplificazione d’impasti quasi marmorei. Colpi al cuore per chi sappia cogliere i segni con cui un attore tanto vigoroso e polifonico come Perinelli dissemina il tracciato d’una scrittura scenica stratificata, a tratti felicissima. Si rivolge a un giudice il Pinocchio impenitente: implora un futuro in legno per sfuggire il (letteralmente) sanguinoso destino.
Maschera e uomo a contatto: per chi s’abbeveri alla fonte di certo teatro (De Berardinis, oltre ai suddetti, ma pure Artaud, Craig e, perché no, Nietzsche), il confronto neppure ha luogo. La sottrazione della vita dagli insulti del tempo a paragone con la condanna al dolore, alla morte, a un’esistenza che mai potrà dirsi piena per chi abbia la ventura di esser davvero senziente. Ovvio scegliere il legno alla carne.
È, questo Requiem straziante, un’esecuzione spietata e implacabile, giocata su scarti, slittamenti vocali, alternando a parte e sequenze d’interpretazione sulla scorta di un’ammirevole capacità di variar toni, tempi, posture. Una prova d’attore di gran pregio. E, forse, proprio perché l’idea portante del lavoro è tanto buona quanto condivisibile, la gran copia di risonanze potrebbe pure contenersi: tale il sospetto per uno spettacolo ben solido e che merita senz’altro d’esser visto.