C’è tutto il Macbeth di Shakespeare, e forse anche qualcosa in più: vive in meno di un’ora, grazie a due attori, un lungo tavolo in legno chiaro e pochi oggetti. Più Mini di così non si può. I corpi in scena sono quelli di Dario Marconcini e Giovanna Daddi: coppia d’arte e di vita che da anni anima il Teatro Francesco Di Bartolo di Buti, dando vita a uno dei centri teatrali più interessanti della Toscana e non solo. Li ritroviamo a SPAM!, per il penultimo appuntamento della rassegna (anche questa mini) Last but not least, seconda occasione prettamente teatrale dopo l’assolo di Simone Perinelli e una serie di appuntamenti più propriamente coreutici.
Il baricentro della sala Arnando Cestaro è idealmente spostato in mezzo allo spazio scenico, in cui veniamo introdotti, conchiuso da pareti di teli bianchi come le sedute che, su due lati, circondano il lungo tavolo. «Dillo. Dillo ancora»: la Lady Macbeth chiede conto al marito, quasi sfidandolo, delle parole che dirà dopo la sua morte. Da lì in poi seguiremo l’ordine degli eventi per come si svolgono nel racconto di Shakespeare, in un percorso che si approssima più a una cronaca delle vicende del Barone di Glamis futuro Re di Scozia che a una rappresentazione. I due recitano sommessamente: in scena c’è la coppia scozzese, ma anche la coppia di attori che non si abbandonano alla mimesi, sempre presenti, come a dichiarare la propria condizione di mediatori fra noi e il testo d’origine. Il ritmo complessivo dell’opera è rapido, ma all’interno delle scene la frenesia è bilanciata con l’indugio, la luce piena si alterna con un buio squarciato solo da poche candele. I due attori si muovono intorno alla tavola, ora seduti ai capi opposti, ora sdraiati l’uno sull’altra in un amplesso criminale.
La sintesi scespiriana di Andrea Taddei coglie l’essenza del dramma e lascia perdere tutta la selva di baroni, dame di compagnia e sicari. Tutto si concentra nella relazione tra i due coniugi: gli altri personaggi non sono negati, ma evocati e raccontati solo dal punto di vista di Macbeth e della moglie. La raffinatezza di Shakespeare è sporcata di realismo da un «vacca troia» di poderoso erotismo che non lascia nulla di non detto, nella non celata dizione toscana. Il dispositivo scenico è sofisticato, profondamente teatrale: spazio e oggetti sono usati ora come metafora, ora come sineddoche, in un gioco con il significato da cui lo spettatore non è mai estromesso.
Tutto è leggibile, ma non immediatamente esauribile: la profondità non è ostentata, la ricchezza non è soffocante opulenza. Il risultato sa di genuinità artigianale, grazie al legno non trattato dell’allestimento (curato da Riccardo Gargiulo), per i costumi in lana grossa, per i bellissimi soldati d’argilla che sferrano l’attacco finale contro Macbeth, mossi da Daddi con un bastone da croupier.
Quello che vediamo in scena è altro dal dramma di Shakespeare, lo contiene ed è a sua volta contenuto nell’opera del Bardo: apparente tradimento, la sintesi svela alcuni aspetti, nella misura in cui soprassiede su altri. Applausi calorosi dal pubblico più o meno affezionato.
ph. Lorenzo Gori